di Paolo Naso
A giugno voteremo anche per i referendum sulle centrali nucleari e sulla privatizzazione dell'acqua: due temi politici, certamente, ma che hanno profonde implicazioni etiche perché rimandano a comportamenti individuali e collettivi e alle visioni del mondo e della natura che li orientano.
A questo punto, gli sforzi per minimizzare gli effetti la catastrofe giapponese non sembrano coronati da grande successo: il nucleare è un rischio, e chi lo difende sulla base di ragionamenti e calcoli economici dovrebbe avere il coraggio di ammetterlo. Certo, è rischioso anche costruire un'autostrada o trasportare petrolio in giro per gli oceani, ma l'incidente di Fukushima conferma l'eccezionale gravità degli effetti di un incidente nucleare, e lo fa oltre ogni oltre ragionevole dubbio.
Ma, parlando di etica, non è questo il punto. La questione di fondo è che l'esigenza nucleare nasce dal costante aumento dei consumi energetici dei paesi più industrializzati; in questo quadro, l'opinione più diffusa è che per crescere un paese abbia bisogno di energia e che lo sviluppo economico sia necessariamente e direttamente proporzionale all'energia a sua disposizione. La filosofia alla base di questa impostazione è quella dello sviluppo virtualmente illimitato e quindi di una disponibilità energetica idealmente sconfinata: l'energia nucleare sarebbe lo strumento in grado di sorreggere questo modello economico "senza limiti" che, certo, comporta un prezzo rischioso ma comunque necessario a garantire lo sviluppo.
Se questa è la logica economica, l'etica suggerisce una strada diversa ed anzi opposta: la sfida non può essere quella di inseguire lo sviluppo senza limiti ma di (ri)dimensionare i consumi sulla base di un criterio di sostenibilità e di giustizia. Le risorse – l'energia come l'aria, lo spazio, l'acqua – sono limitate e tutti noi dobbiamo assumere eticamente questo limite: non potendo aumentare le risorse bisogna contenere i consumi, i nostro consumi. E criteri di giustizia impongono che a farlo siamo soprattutto noi che viviamo in paesi le cui economie hanno sequestrato, anche ricorrendo all'uso della forza, le quote più ampie di risorse e di beni naturali. “Decrescita felice”, afferma qualcuno, sottolineando che il deficit energetico si supera solo facendo proprio un diverso modo di produrre, consumare e condividere le risorse. Da decenni molte chiese – tra di esse anche quelle valdesi e metodiste – si muovono in questa direzione sia nei loro pronunciamenti pubblici che nelle loro scelte operative. Raccontare questa novità, questo impegno e la visione che lo sorregge potrà essere il migliore e più autorevole contributo delle chiese al dibattito pubblico sul quesito referendario.
Fratello sole ma anche Sorella acqua, non solo l'energia ma anche le risorse del creato. A giugno voteremo anche su questo tema che, di nuovo, ha forti implicazioni etiche, legate cioè a un'idea o un principio che suggeriscono dei comportamenti coerenti. Sappiamo bene che l'acqua è ormai una merce, e tra le più care. Ma sappiamo anche che è un bene assoluto e primario che decide della vita e della morte delle persone e dei popoli. Lasciarla sotto il controllo pubblico, pur tra le mille ambiguità che vanno registrate, significa riconoscere almeno simbolicamente che appartiene a tutti e che deve soddisfare i bisogni di tutti. Privatizzarla, al contrario, significa porla sotto la legge del mercato e quindi del profitto, legittimando la speculazione su un bisogno primario di ogni individuo. "Molto utile ed humile et pretiosa et casta", l'acqua è un bene comune che tutti noi dobbiamo responsabilmente preservare e condividere.
7 Aprile 2011 Paolo Naso
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