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24 ottobre 2021


                                            Matteo 10, 34-39

 

Predicazione di Aldo Palladino

24 Ottobre 2021 - Tempio Valdese di C.so Vittorio Emanuele II, n. 23 

 

Il testo biblico

34 Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. 35 Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; 36 e i nemici dell'uomo saranno quelli stessi di casa sua. 37 Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me. 38 Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. 39 Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.Il testo biblico di oggi si trova all'interno del cosiddetto "discorso missionario" di Gesù, il secondo dei cinque grandi discorsi incastonati nel vangelo di Matteo in cui Gesù prepara i suoi discepoli alla missione. Li manda in coppia a  predicare l'evangelo e dà loro anche le istruzioni da osservare durante il loro ministero itinerante: l'equipaggiamento da portare, a chi rivolgere la predicazione, predicare che il regno dei cieli è vicino, dove cercare ospitalità e come relazionarsi con le persone che li ospitano o che li rifiutano. Il consiglio che Gesù dà è di "viaggiare leggeri", che tradotto in chiave moderna suggerisce di vivere in modo semplice, liberi dagli eccessi del materialismo. Ma nello stesso discorso Gesù li avverte che la loro vita non sarebbe stata facile: "Ecco - dice -, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi…guardatevi dagli uomini; perché vi metteranno in mano ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia" (Mt. 10, 16-18).                        

Anche nel vangelo di Giovanni li mette in guardia con un analogo avvertimento: "Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me…Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi"(Gv. 15,18.20).

Come sono vere queste parole di Gesù! Infatti ancora oggi, secondo un'indagine di Porte Aperte, sono oltre 340 milioni nel mondo i cristiani che sperimentano un livello alto di persecuzione e discriminazione a causa della propria fede (cioè 1 cristiano su 8), soprattutto in Africa e nei paesi mediorientali.                        

Ed è per questo che Gesù raccomanda loro di essere "prudenti come i serpenti e semplici come le colombe". Prudenti, cioè giudiziosi e assennati, e semplici, letteralmente "non miscelati" (come si diceva del vino e dei metalli), cioè puri, senza falsità, e schietti.  

È in questo contesto che si colloca il nostro testo, che inizia con l'affermazione: "Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada" (v.34). 

Che cosa hanno pensato i discepoli quando hanno udito queste parole? E come reagiamo noi dinanzi a questa affermazione? Ma soprattutto, dinanzi a questo testo che crea un certo imbarazzo come questo, che genera domande, la domanda più pertinente è: "Ma Gesù cosa intende dire con queste parole, cosa vuole dirci questo testo?". 

Certamente i discepoli avranno pensato: "Ma come, Maestro!? Ci hai sempre parlato di pace e ci hai detto: 

-       "Beati quelli che s'adoperano alla pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt.5,9);

-       "Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà" (Gv.14,27).                                                                                                       E abbiamo sempre creduto fermamente alle parole del profeta Isaia (9,5; 11,1 e ss) che descriveva il Messia come Principe della pace e il suo Regno di giustizia e pace, ma anche all'apostolo Paolo che ha solennemente affermato che Gesù Cristo è la nostra pace (Ef. 2,14), che dobbiamo "cercare le cose che contribuiscono alla pace…" (Rom. 14,19).

Ed ora ci dici che non sei venuto a mettere pace sulla terra, ma spada!"

     E noi, credenti del XXI secolo, non pensiamo forse che tutto sommato i discepoli hanno ragione a pensarla così? Non è forse il cristianesimo la religione della pace, della bontà, dell'amore? Non siamo noi chiamati ad essere degli strumenti e costruttori di pace?

Si tratta quindi solo di comprendere che questa frase di Gesù va interpretata in senso metaforico e non letterale, perché se l'interpretiamo in senso letterale il nostro testo risulterebbe in palese contrasto con l'insegnamento di Gesù che invitava il suo discepolo persino a porgere l'altra guancia a chi lo schiaffeggiava (5,39).        

Sarebbe anche in contrasto con le parole pronunciate da Gesù nel giardino del Getsemani quando a un discepolo che prende la spada e recide l'orecchio del servo del sommo sacerdote dice senza esitazione: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (26,51-52)?

 

Qual è, allora, il significato vero dell'evocazione della spada sulle labbra di Gesù?                                                                                                        

Gesù non si riferisce alla spada come strumento di guerra da mettere nelle mani dei discepoli, non è un invito alla guerra o alla crociata. È un simbolo piuttosto di separazione e di divisione, perché la sua presenza nel mondo e la sua parola scatenano ostilità, opposizione, conflitti e perfino persecuzioni da parte dei suoi avversari, verso di lui e verso i suoi discepoli.  È la lealtà alla persona di Gesù Cristo che determina l'ostilità degli avversari. Ogni discepolo cristiano deve sapere che quello è il prezzo della sua fede in Cristo e della sua sequela.  

La spada dunque è una metafora di separazione e divisione (Lc. 12,51; Ebr. 4,12). Questo significato è rafforzato dalle parole di Gesù che dice: "Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell'uomo saranno quelli stessi di casa sua"(v.35-36).

Dalla chiesa primitiva fino ai nostri giorni la storia è piena di personaggi più noti e meno noti (Francesco d'Assisi, Pietro Valdo, Lutero e tanti altri) le cui vite sono state raggiunte e trasformate dall'evangelo della grazia e dell'amore di Dio in Gesù Cristo, che tuttavia ha generato separazioni, divisioni, lacerazioni e contrasti anche nelle famiglie e in tanti paesi.                    

     Ricordo di un mio amico, che negli anni sessanta, fu ripudiato dalla sua famiglia e cacciato di casa perché si era iscritto alla Facoltà valdese di Teologia per diventare pastore protestante. Fu poi accolto in casa dal Nonno che lo aiutò a realizzare la sua vocazione. Divenne poi pastore luterano.

     Singolare è anche la storia di Galeazzo Caracciolo, marchese di Vico del Gargano che, nel 1551, dopo aver ascoltato le predicazioni di Ochino e di Vermigli, dopo una tormentata crisi spirituale, lascia moglie e sette figli per andare a Ginevra  dove il pensiero della Riforma era insegnato da Giovanni Calvino e Teodoro di Beza. Il fatto fece scalpore perché Galeazzo era pronipote del Papa Paolo IV e sua moglie nipote. A Ginevra contribuì a fondare la chiesa Evangelica Italiana dove vi erano molti esuli italiani.

Gesù certamente non predicava la dissoluzione della famiglia, perché egli vuole l'unione di tutti nella Verità (Gv. 17,17-23), ma la scelta di seguirlo significava relativizzare i legami affettivi naturali per entrare nella nuova dimensione della famiglia spirituale. 

Le parole di Gesù sono molto dure: "Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me" (v.37).  Genitori e figli sono gli affetti più cari, gli affetti per chi ci ha generato e per chi noi abbiamo a nostra volta generato.  Per i genitori e per i figli si fa di tutto. Ma Gesù ci chiede di amarlo ancora di più, ci chiede che i legami affettivi non siano un ostacolo per il dono di sé a Cristo. Gesù non ci chiede di non amare i membri della nostra famiglia, ma ci diede di amarlo più dei membri della nostra famiglia.

Sotto questo punto di vista, anche la chiesa, se vista come una famiglia spirituale non è una famiglia in sostituzione della famiglia naturale, chiusa e ristretta, ma una famiglia di ordine diverso, aperta e accogliente, composta da persone che si riconoscono in un patto di grazia e d'amore per testimoniare il Signore Gesù Cristo.

Dunque, dare a Gesù il primo posto nel proprio cuore, prima degli affetti naturali e sacrificando il proprio io, è la prima condizione richiesta a chi vuole essere suo discepolo.

La seconda condizione è nelle sue parole: ""Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me" (v.38). Gesù non ci dice di prendere la sua croce, perché essa è unica, non replicabile e non ripetibile, anche se il discepolo deve essere pronto al martirio pur di testimoniare la propria fede. Ma la croce che Gesù ci invita a prendere è quella dell'impegno e della responsabilità di mettere nelle sue mani la nostra vita, sapendo che Egli darà un senso nuovo, più alto e significativo alla nostra esistenza. 

Sono due condizioni che ci spaventano, davvero pesanti, dure da accettare e che ci fanno sentire inadeguati. Ma le parole di Gesù scuotono fortemente le nostre coscienze perché ci fanno sentire molto distanti dalla radicalità della vita di Gesù. Le sue parole, dunque, dobbiamo accoglierle come un'esortazione, uno stimolo a vincere il clima di rassegnazione, pigrizia, disincanto e di stanchezza che talvolta riscontriamo nelle nostre comunità.                                           

Dunque, è vitale tornare a vivere nella comunità dei credenti come nella "nuova famiglia" che Gesù ci ha indicato e consacrare la nostra vita a Lui con rinnovato spirito di servizio e con fedeltà, sapendo che non rispondere alla chiamata di Gesù a seguirlo - perché rimaniamo attaccati alla nostra vecchia vita - significa perdere l'opportunità di scoprire la bellezza, la profondità e il grande valore della vera vita che Gesù ci offre (v.39).

Amen.

 

                                                                       Aldo Palladino

04 settembre 2021


Giovanni 6, 47-51

Gesù è il pane

Predicazione del Past. Prof. Paolo Ricca

Il testo biblico 

47 In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha vita eterna.
48 Io sono il pane della vita.
49 I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono.
50 Questo è il pane che discende dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia.
51 Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane
vivrà in eterno; e il pane che io darò per la vita del mondo è la mia carne».

 

Salmo 104,14-15; 27-28;33-34; Apocalisse 3,20; Matteo 4,1-4

 

Cari Fratelli e Sorelle,

Gesù parla di pane. Anche noi ne parliamo ogni giorno, perché quando parliamo di lavoro, di disoccupazione, di precariato, parliamo di pane. Anche il lavoro è pane. Ma anche quando parliamo di salute, parliamo di pane: anche la salute è pane. E anche quando parliamo di amore, parliamo di pane: anche l'amore è pane. Parliamo continuamente di pane. Non possiamo non parlarne. L'umanità ne parla da sempre, dall'inizio della sua storia. In ogni tempo e in ogni luogo, ne parla ogni famiglia, ogni singola persona, ogni gruppo sociale, ogni popolo. Tutti parlano di pane.

Se avessero la parola, ne parlerebbero anche gli animali, perché anche loro devono mangiare, non una volta ogni tanto, ma ogni santo giorno. Anche noi dobbiamo mangiare ogni santo giorno. Senza pane non si vive, perciò il pane è il problema numero uno. Lo sappiamo tutti. Dovrebbe saperlo anche il prossimo governo del nostro paese, se ne avremo uno, dovrebbero saperlo tutti i governi del mondo, che invece spesso lo dimenticano, e mettono in cima alla loro agenda altre priorità. Aspetto ancora un governo che metta al primo posto, come problema numero uno, il pane.

Gesù sa, come sappiamo noi, che il pane è il problema numero uno dell'umanità. Perciò ci ha insegnato a dire nel "Padre nostro" come prima richiesta tra quelle che riguardano noi: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano". Gesù prende sul serio il problema del pane perché prende sul serio il problema della fame. Non so se nella vostra vita avete mai avuto fame senza avere il pane. Noi abbiamo fame, o almeno appetito, ogni giorno, ma ogni giorno abbiamo il pane. Ma avere fame e non avere pane, io non so che cosa voglia dire, so solo che deve essere terribile. Gesù sa che cosa vuol dire avere fame e non avere pane, avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, e "alla fine", dice l'Evangelo letto poco fa, "ebbe fame", ma non c'era pane, c'erano solo pietre, che Egli non trasformò in pane, come gli suggeriva il diavolo. Gesù dunque sa cosa vuol dire aver fame, e quindi conosce il valore unico, assoluto del pane. Per questo dedica al pane l'ampio discorso del capitolo 6 (uno dei più lunghi del quarto evangelo), ma prima di parlare del pane, Gesù lo moltiplica e lo distribuisce alla folla di cinquemila persone affamate che sono state saziate. Davanti alla fame dell'uomo, Gesù non fa discorsi, ma moltiplica il pane, affinché tutti siano saziati e la fame sia debellata per sempre. Questo dunque è il primo evangelo del nostro testo: Gesù, pane di Dio disceso dal cielo, sa che cosa vuol dire "fame" avendola provata lui stesso, perciò prima di fare qualunque discorso sul pane lo ha moltiplicato affinché ce ne sia per tutti. E proprio questo è il primo "evangelo del pane": che ce ne sia per tutti.

Ma poi ce n'è un secondo, ed è di questo secondo "evangelo del pane" che Gesù parla il giorno dopo aver moltiplicato i pani e i pesci, quando la folla lo cerca (il giorno prima voleva "rapirlo per farlo re" – versetto 15), ma Gesù si accorge che non è lui che cercano, bensì il pane: "Voi mi cercate-dice- perché avete mangiato dei pani e siete stati saziati". E aggiunge subito: "Adoperatevi non per il cibo che perisce ma per il cibo che dura in vita eterna" (v.27). Ecco, qui comincia il secondo "evangelo del pane".

Il primo l'abbiamo detto: il pane quotidiano, il pane per il corpo che sazia la fame dell'uomo è fondamentale, è prioritario, è preliminare a qualunque discorso, deve essercene per tutti i cinquemila. Ma ora che la gente è stata saziata, ora che non ha più fame di pane, ora può ascoltare il discorso di Gesù sull'altro pane. Si, c'è anche un altro pane, che non è quello che Gesù ha moltiplicato. È il pane di cui Gesù parla già nella alla tentazione, quando respinge il consiglio del diavolo di trasformare le pietre in pane dicendo: "Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio" (Matteo 4,4).

Vivrà certamente di pane, anzitutto di pane, ma non soltanto di pane, perché non c'è solo il pane per il corpo, ce n'è un altro, così come non c'è solo la fame di pane, ma c'è anche nell'uomo la fame di giustizia e Gesù dichiara "Beati gli affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati" (Matteo 5,6). Beato te, se non hai solo fame di pane, ma anche di giustizia. Ma nell'uomo c'è anche fame e sete di libertà, fame e sete di verità, fame e sete di pace, fame e sete di felicità, fame e sete di amore - un'infinita fame e sete di amore. Beato te, se non hai solo fame di pane, ma hai fame e sete di libertà, di verità, di pace e di amore. Ma l'elenco non è finito! C'è nell'uomo una inesauribile fame e sete di conoscenza. Beato te, se hai questa fame che viene saziata dal pane della scienza. E c'è anche nell'uomo, una insopprimibile fame e sete di bellezza e di armonia. Beato te, se hai questa fame e sete, perché puoi saziarla con il pane delle arti e della musica. Ma neppure ora l'elenco è finito.

Nell'uomo c'è un'altra fame ancora più profonda e misteriosa: la fame e la sete di Dio, di cui parla il profeta Amos: "Ecco, vengono i giorni, dice il Signore, l'Eterno, che io manderò la fame nel paese, non fame di pane o sete di acqua, ma la fame e la sete d'udire la parola dell'Eterno" (8,11). Beato te, se conosci questa fame e questa sete! Beato te, se sei venuto in chiesa perché hai questa fame e questa sete- sete dell'anima, sete di Dio. "L'anima mia è assetata di Te, la mia carne ti brama, in una terra arida che langue senz'acqua" (Salmo 66,1). Ecco: il secondo "evangelo del pane" di cui Gesù ci parla questa mattina è la risposta a questa fame e a questa sete. E la risposta qual è? Eccola: "Io sono il pane della vita" dice Gesù. Egli non è solo colui che moltiplica il pane e lo distribuisce: è lui stesso il pane che sazia la fame e la sete di Dio. Lo dice due volte: "Io sono il pane della vita", "Io sono il pane vivente": è come se dicesse: "Io sono la vita della vita", perché il pane è ciò che ci fa vivere e allora "pane della vita" vuol dire "vita della vita", ciò che fa vivere la vita, ciò che le da sostanza e consistenza, come se la vita non bastasse a se stessa, come se non bastasse essere vivi per vivere veramente, come se la verità della vita non fosse nella vita ma in Gesù. E allora: "Io sono il pane della vita" significa "Io sono il pane della verità della tua vita" o più semplicemente: "Io sono la verità della tua vita".

E qual è questa verità? Ecco la risposta di Gesù:" il pane che darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo" (v. 51). "la mia carne" vuol dire la mia storia, cioè la mia vita dalla greppia di Betlemme alla croce del Golgotha, la mia vita totalmente vissuta per gli altri e alla fine donata come prezzo di riscatto "per la vita del mondo ", dice Gesù: Egli non è solo la verità della tua vita, è la verità della vita del mondo- ed ecco la verità: la tua vita è riscattata, è perdonata, è liberata, è riconciliata; puoi essere lieto, sereno e felice, nulla e nessuno ti può rovinare la vita, Gesù l'ha messa al sicuro nella fortezza del suo perdono e della sua guida. La vita della nostra vita, anzi la vita stessa del mondo è la vita di Gesù offerta sulla croce. "Ecco l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo" e apre le porte a un nuovo mondo, a una nuova umanità, a una nuova vita. Ecco l'altro pane che Gesù ha portato: il pane dell'amore e della grazia di Dio, che Gesù non solo ha portato, ma che è stato ed è nei secoli dei secoli per tutte le generazioni: "Io sono il pane della vita", io sono la vita della vita. Questo pane è disceso dal cielo, non venuto su dalla terra, non è un prodotto della terra, un prodotto dell'uomo. Però è un prodotto per l'uomo, per ciascuno di noi, tutti abbiamo bisogno di questo pane.

"Chi mangia di questo pane vivrà in eterno" (v.51). Che cosa vuol dire "mangiare di questo pane"? Vuol dire credere in Gesù, ma l'immagine del mangiare è molto istruttiva, ci fa capire bene che cosa vuol dire "credere": vuol dire entrare in un rapporto intimo, personale, come con il cibo quando mangiamo: il cibo entra dentro di noi e diventa nutrimento, così credere in Gesù significa nutrirsi di Lui, dei suoi pensieri, della sua sapienza, del suo perdono, del suo sacrificio, della sua vittoria sul male, sul peccato e sulla morte, della sua vittoria sulla rassegnazione, sullo scetticismo, sull'incredulità- nutrirsi di questa vittoria, ecco cosa vuol dire "mangiare del pane disceso dal cielo", cioè credere in Gesù, l'ultimo Adamo, l'uomo nuovo per un mondo nuovo.

Peccato che oggi in questa chiesa non è prevista la celebrazione della Cena del Signore. Sarebbe stato bello concludere questa predicazione con la condivisione del pane della Cena, segno potente ed efficace del pane di Dio che è disceso dal cielo e che da vita al mondo. Ma anche così, anche senza il segno, abbiamo la sostanza nella fede, abbiamo Gesù, pane della vita, vita della vita, della vita nostra e del mondo.

Amen

Predicazione del Pastore Paolo Ricca, Chiesa Valdese di Firenze, Domenica 10 Marzo 2013    

03 settembre 2021

Giovanni 20, 11-18
Perché piangi ?

Predicazione del Past. Prof. Paolo Ricca

Il Testo biblico 

11 Maria, invece, se ne stava fuori vicino al sepolcro a piangere. Mentre piangeva, si chinò a guardare dentro il sepolcro,
12 ed ecco, vide due angeli, vestiti di bianco, seduti uno a capo e l'altro ai piedi, lì dov'era stato il corpo di Gesù.

13 Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?» Ella rispose loro: «Perché hanno tolto il mio Signore e non so dove l'abbiano deposto».
14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù.
15 Gesù le disse: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» Ella, pensando che fosse l'ortolano, gli disse: «Signore, se tu l'hai portato via, dimmi dove l'hai deposto, e io lo prenderò».
16 Gesù le disse: «Maria!» Ella, voltatasi, gli disse in ebraico: «Rabbunì!» che vuol dire: «Maestro!»
17 Gesù le disse: «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli, e di' loro: "Io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro"».
18 Maria Maddalena andò ad annunciare ai discepoli che aveva visto il Signore, e che egli le aveva detto queste cose.

Cfr. anche Ezech. 37, 9-14; I Pt 1, 3-9; Mc 16, 9-15

 

Cari Fratelli e Sorelle,

in presenza di un racconto come questo, così bello, così luminoso, così immenso nel suo annuncio di vittoria, di grazia, di gloria, non si sa da dove cominciare; non si sa da dove cominciare ad attingere a piene mani ai tesori racchiusi come in uno scrigno in questi pochi, ineguagliabili versetti dell'evangelo secondo Giovanni. Cominceremo da dove comincia Gesù.

Gesù comincia da una donna. Non comincia più come aveva cominciato all'inizio del suo ministero, scegliendo dodici uomini: Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea, Filippo e tutti gli altri. A nessuno di questi Gesù appare per prima. A nessuno di loro Gesù affida la più grande e bella notizia mai udita in questo mondo, la notizia che per una volta la morte è stata vinta, che per una volta la morte non ha avuto l'ultima parola. Questa notizia che sta al cuore della fede cristiana ed è la ragione incrollabile della nostra speranza, Gesù non l'ha affidata ai grandi apostoli uomini, uno dei quali l'ha tradito, l'altro l'ha rinnegato tre volte e tutti, senza eccezione, l'hanno abbandonato, non a loro Gesù ha affidato il messaggio più grande, quello decisivo, la parola-chiave della fede e della storia: "Risurrezione!", la parola più divina di tutte, quella che più e meglio di ogni altra ci porta vicino al mistero di Dio che è un mistero di luce, questa parola che è la più preziosa della Bibbia dopo il nome tre volte santo di Dio. Questa parola Gesù non l'ha affidata ai signori apostoli, ma prima di tutto e di tutti a una donna, che non era apostola, ma che Gesù ha incoronato quella mattina "apostola degli apostoli".

Si, da qui dovevamo cominciare perché da qui comincia Gesù: da una donna. Così facendo Gesù va completamente contro corrente, perché allora le donne non erano accettate come testimoni nei tribunali; la loro parola non valeva niente; Gesù distrugge questa discriminazione affidando proprio a una donna la testimonianza più importante di tutte. Ma chi è questa donna che Gesù sceglie come prima testimone della risurrezione? E' Maria di Magdala (Magdala era un villaggio situato nel Mar di Tiberiade in Galilea), più nota però come Maria Maddalena, che secondo la tradizione era un'ex-prostituta che si era messa a seguire Gesù, ed era presente, insieme ad altre Marie sia alla morte di Gesù, sia alla sepoltura e ora accanto al sepolcro.

Non so se avete mai visto o sentito l'opera rock americana che si chiama Jesus Christ Superstar. Contiene una bellissima aria cantata da Maria Maddalena che dice così: "Io non so come amarlo. Non so che cosa fare, come muovermi con lui. Sono stata cambiata, si, realmente cambiata. In questi ultimi giorni, guardando a me stessa mi sembra di essere un'altra. Non so come interpretare questo fatto. Non capisco perché egli mi commuove. È un uomo, solo un uomo, e io ne ho avuti tanti di uomini. Non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione del genere. Che cosa mi sta accadendo. Eppure, se dicesse che mi ama, sarei perduta, sarei spaventata. Non sarei all'altezza, semplicemente non sarei all'altezza. Mi girerei dall'altra parte. Indietreggerei. Non vorrei sapere. Mi spaventa tanto. Lo desidero tanto. Lo amo tanto".

Ecco descritto mi sembra molto bene il conflitto interiore di Maria Maddalena, trasformata da Gesù e quindi impaurita dal suo potere divino di perdono, e al tempo stesso, forse, innamorata di quest'uomo, che sembra come tutti gli altri, e invece è come nessun altro. "Non so come amarlo" dice Maria Maddalena: se amarlo come il mio liberatore, o amarlo in un altro modo che non so quale possa essere, e non oso confessare neppure a me stessa. È quest'altro amore che la spinge a cercare almeno il corpo di Gesù: alla persona che le sta davanti e che lei pensa sia il giardiniere, ella dice: "Se tu l'hai portato via, dimmi dove l'hai posto, e io lo prenderò" (20,15).

È dunque a questa donna scartata due volte (come donna la cui parola non vale nulla e come ex-prostituta per la sua condotta scandalosa), a questa donna scartata due volte sia dalla società civile sia dalla comunità religiosa che Gesù affida l'annuncio della Risurrezione, che è la pietra angolare su cui poggia l'intero edificio della fede e della Chiesa. Veramente tu sei un Dio che compie meraviglie, che sceglie le cose disprezzate del mondo per confondere quelle da tutti onorate, che capovolgi i nostri criteri di giudizio, che innalzi gli umili e abbassi i potenti. Con Te, Signore Gesù Cristo, i primi diventano ultimi, e gli ultimi primi.

Ma questa donna che Gesù sceglie è una donna in lacrime: "Maria se ne stava presso il sepolcro a piangere" (v.11). Per ben due volte (prima i due angeli, poi Gesù stesso) le rivolgono la stessa domanda: "Perché piangi?". Dobbiamo fermarci un istante su queste lacrime. Abbiamo mille motivi per piangere. Credo che non ci sia nessuno che non abbia mai pianto in vita sua. E se per caso non avessimo una ragione personale per piangere perché le cose ci vanno abbastanza bene, ci sono le condizioni del mondo che ci offrono tanti motivi per piangere, a motivo dei conflitti, delle guerre, della fame, delle ingiustizie, delle spaventose contraddizioni che vediamo ogni giorno. Abbiamo mille motivi per piangere se il nostro cuore non è di pietra, ma di carne, se abbiamo un po' di compassione per l'uomo e per il mondo attraversato da tanto dolore.

C'è una leggenda ebraica che dice che nel mondo esistono 36 Giusti, che sono il cuore moltiplicato del mondo, che prendono su di sé il dolore del mondo così che attraverso loro tutte le nostre lacrime si versano nel cuore di Dio. Quando uno di questi Giusti sale al cielo, è così ghiacciato che Dio deve riscaldarselo tra le dita per mille anni prima che la sua anima possa dischiudersi al Paradiso. Per dire quanto è grande il dolore del mondo.

Ma Maria non piange per se stessa o per le condizioni del mondo. Piange perché il sepolcro è vuoto, dove c'era Gesù, non c'è più nulla. Il corpo scomparso di Gesù è una metafora per l'eclissi di Dio nella società moderna, soprattutto occidentale. Maria piange per il vuoto lasciato dall'eclisse di Dio, piange per la perdita di Dio. Non so se conosciamo questo dolore. Nella Bibbia c'è un Salmo che ne parla: "Le mie lacrime sono diventate il mio cibo giorno e notte, mentre mi dicono continuamente: Dove è il tuo Dio?". Perché piangi? Piango perché soffro per questo vuoto, non lo posso accettare, non mi rassegno a una presenza diventata assenza, non mi rassegno a vedere Dio emarginato o ignorato, come qualcosa di superfluo, o di ingombrante, o di irrilevante. Donna, perché piangi? Piango perché l'Europa in larga misura ti ha perso di vista, e anch'io, con la mia generazione, abbiamo perso le tue tracce. Sono venuta a cercarti, ma non ti ho trovato. Spero che il dolore di Maria Maddalena lo proviamo un po' anche noi.

Ma ecco: colui che era scomparso, appare; colui che sembrava assente, è presente. È  presente, ma non è riconosciuto. Questo è il destino di Dio nel mondo: essere presente e non essere riconosciuto. Si parla tanto della assenza di Dio: ma Dio non è assente, è presente, ma non è riconosciuto. Come succede qui a Gesù: "Maria vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era Gesù" (20,14). Lo vede, ma non lo riconosce. Perché non lo riconosce? Certamente perché il corpo risorto di Gesù è diverso da quello che aveva durante la sua vita, è un corpo nuovo, e il fatto che Maria non lo riconosca esprime appunto la diversità e novità del corpo risorto rispetto a quello di prima.

Ma il tema di vedere e non riconoscere è molto ampio e concerne il nostro modo di guardare tutta la realtà che ci circonda. Ad esempio: vedere il cielo e la terra e non riconoscere la mano di Dio; vedere la creatura e non riconoscere il Creatore; vedere la vita e non riconoscere "la Fonte della vita" (Salmo 36,9); vedere l'altro e non riconoscere il prossimo; vedere il prossimo, e non riconoscere il fratello; vedere un malato, un carcerato, un profugo, un affamato e non riconoscere quello che Gesù chiama uno dei suoi "minimi fratelli" (Matteo 25,40). Che cosa vuol dire "riconoscere"? Vuol dire vedere quel che non si vede, vedere oltre le apparenze, vedere quel che è nascosto agli occhi del corpo, ma è evidente agli occhi del cuore; in una parola vedere l'invisibile. Come dice l'apostolo Paolo: "Noi abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; perché le cose che si vedono sono solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne" (II Corinzi 4,18).

Maria non riconosce subito Gesù, ma poi lo riconosce. Quando? Quando Gesù le parla. Finché Dio resta muto, è una Sfinge, un Enigma, una grande Domanda senza risposta, uno Sconosciuto, come quello al quale gli Ateniesi avevano eretto un altare "Al Dio sconosciuto" (Atti 17,23). Dio lo si conosce e riconosce nella sua Parola. Quando Gesù parla, allora Maria lo riconosce. E che cosa le dice Gesù? Non le dice, come potremmo aspettarci: "Io sono Gesù, non sono il giardiniere", no, le dice: "Tu sei Maria; ti conosco e ti riconosco". E Maria risponde: "Rabbunì!" che vuol dire Maestro! C'è dunque qui un doppio riconoscimento: Maria riconosce Gesù nel momento in cui Gesù riconosce Maria!

E non vi sembra meraviglioso che la prima parola di Gesù risorto sia: "Donna, perché piangi?". Come per dire: "So bene che ci sono tante ragioni per piangere, davvero tante. Ma ora ce n'è una per non piangere, una sola, ma c'è: Gesù è risorto, la morte è stata vinta, l'ultima parola ce l'ha la vita e non la morte, la libertà e non l'oppressione, la giustizia e non l'ingiustizia, il bene e non il male, la gioia e non il dolore. Si, c'è una ragione per non piangere, una sola, ma c'è: è quella che celebriamo in questo culto e che vogliamo gelosamente custodire nel nostro cuore, per non dimenticarla nel giorno delle lacrime. E non vi sembra meraviglioso che la seconda parola che Gesù risorto pronuncia sia il nostro nome: "Maria!" Gesù si trova già aldilà del confine della morte, nel mondo nuovo di Dio, ma non dimentica il nostro nome e ci chiama: "Maria!" "Carlo!" "Franco!" "Anna!" "Laura!". Mettete il vostro nome al posto di quello di Maria, scrivetelo nella vostra Bibbia. Gesù risorto, dall'altro versante della realtà, ci chiama per nome a entrare nella comunità della risurrezione, dove si sa che l'ultima parola ce l'ha Lui, e non la morte, Lui, il primo e l'ultimo, e il vivente nei secoli dei secoli.

Cari Fratelli e Sorelle, io mi devo fermare perché l'ora è avanzata, ma l'evangelo di Pasqua continua. Ci sono altri tesori nei versetti successivi che non abbiamo il tempo di mettere in luce. Ma quello che abbiamo udito è più che sufficiente per celebrare una "Buona", anzi un' "Ottima Pasqua". Amen.

Pastore Paolo Ricca - sermone predicato in occasione del culto di Pasqua, Domenica 31 marzo 2013, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze

26 gennaio 2021

 

           Marco 5, 1-20

                                                                       L'indemoniato di Gerasa

                                                                     Un commento di Aldo Palladino

Il testo biblico

1 Giunsero all'altra riva del mare, nel paese dei Geraseni. 2 Appena Gesù fu smontato dalla barca, gli venne subito incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo, 3 il quale aveva nei sepolcri la sua dimora; nessuno poteva più tenerlo legato neppure con una catena. 4 Poiché spesso era stato legato con ceppi e con catene, ma le catene erano state da lui rotte, e i ceppi spezzati, e nessuno aveva la forza di domarlo. 5 Di continuo, notte e giorno, andava tra i sepolcri e su per i monti, urlando e percotendosi con delle pietre. 6 Quando vide Gesù da lontano, corse, gli si prostrò davanti 7 e a gran voce disse: «Che c'è fra me e te, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Io ti scongiuro, in nome di Dio, di non tormentarmi». 8 Gesù, infatti, gli diceva: «Spirito immondo, esci da quest'uomo!» 9 Gesù gli domandò: «Qual è il tuo nome?» Egli rispose: «Il mio nome è Legione perché siamo molti». 10 E lo pregava con insistenza che non li mandasse via dal paese. 11 C'era là un gran branco di porci che pascolava sul monte. 12 I demòni lo pregarono dicendo: «Mandaci nei porci, perché entriamo in essi». 13 Egli lo permise loro. Gli spiriti immondi, usciti, entrarono nei porci, e il branco si gettò giù a precipizio nel mare. Erano circa duemila e affogarono nel mare. 14 E quelli che li custodivano fuggirono e portarono la notizia in città e per la campagna; la gente andò a vedere ciò che era avvenuto. 15 Vennero da Gesù e videro l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che aveva avuto la legione; e s'impaurirono. 16 Quelli che avevano visto raccontarono loro ciò che era avvenuto all'indemoniato e il fatto dei porci. 17 Ed essi cominciarono a pregare Gesù che se ne andasse via dai loro confini.

18 Com'egli saliva sulla barca, l'uomo che era stato indemoniato lo pregava di poter stare con lui. 19 Gesù non glielo permise, ma gli disse: «Va' a casa tua dai tuoi, e racconta loro le grandi cose che il Signore ti ha fatte, e come ha avuto pietà di te». 20 Ed egli se ne andò e cominciò a proclamare nella Decapoli le grandi cose che Gesù aveva fatte per lui. E tutti si meravigliavano.

 

Testi biblici paralleli: Mt. 8,28-34 e Lc. 8,26-39

 

     Il vangelo di Marco è il più antico tra i vangeli sinottici, per cui è legittimo chiedersi dove Marco abbia attinto questa storia. Molti studiosi hanno sostenuto che abbia attinto alla tradizione, altri che abbia costruito integralmente questa storia a fini apologetici della divinità di Gesù e c'è chi pensa sia una storia reale ma non vera. È verosimile che Marco si sia ispirato a Isaia 65,1-4 in cui viene denunciata la venerazione dei morti e l'impurità del popolo d'Israele con le immagini delle tombe e dei cibi impuri come atti di ribellione contro Dio. Nondimeno, è un racconto ricco di insegnamenti che delinea il carattere salvifico e liberatorio di Gesù nei confronti di quanti ha incontrato lungo le vie della Palestina e di coloro che odono, ascoltano e ricevono il suo evangelo.

     Gesù, dunque, attraversa il Lago di Tiberiade o Mar di Galilea e sbarca nel territorio pagano della Decapoli (ΔεκάπολιςDekápolis, "dieci città"), abitato nel corso della storia dai greci e poi anche dagli occupanti romani. Quindi è una popolazione prevalentemente di gentili, di pagani considerati impuri.

     Non c'è accordo nei manoscritti greci sulla località del racconto. Matteo parla di Gadara (8,28), Luca cita Gerasa (8,26) seguendo la linea di Marco (5,1). Sono due città molto distanti dal Lago di Tiberiade che mal si conciliano con il racconto dei porci che precipitarono nel lago.

Origene, invece, che individua la località in Gergesa, riferisce del paese dei Gergeseni o dei Ghirgasei di Genesi 10,16.

Ma nel 1928, scavi archeologici avrebbero identificato il luogo del precipizio dei porci nella località di Mogà Adla nel territorio della città di Kursi che con Gerasa (o Kerasa) aveva in comune tre lettere (KRS). Ci sarebbe stata,quindi, una errata interpretazione di quelle lettere.

 Incontro con l'indemoniato e sua descrizione (vv. 1-5)

     Appena la barca approda sull'altra riva, Gesù scende dalla barca. Non si sa se siano scesi anche i discepoli, che non compaiono in tutto l'episodio. E subito gli va incontro un uomo. Marco dà una sommaria descrizione di quest'uomo: è "posseduto da uno spirito immondo" (v. 2), vive e dimora tra i sepolcri della necropoli (i sepolcri erano grotte scavate nelle colline rocciose), era stato legato con ceppi e catene (v. 3-4) per contenerlo e ridurlo all'impotenza ma lui le aveva rotte con la sua forza inaudita; trascorre i giorni tra i sepolcri e sui monti; inoltre urlava e si percuoteva con delle pietre (v. 5).

Possiamo farci un'idea di quest'uomo: è un uomo demente, un pazzo, tanto inavvicinabile e intrattabile che la comunità lo ha emarginato e allontanato dai luoghi della società "normale" per non avere niente a che fare con lui. È un uomo solo, che tutti schivano, che non ha rapporti con la vita civile. Infatti, trascorre il suo tempo tra i sepolcri e i monti, notte e giorno.

Incontro con gli spiriti (vv. 6-10)

Alla vista di Gesù, l'indemoniato si rivolge a Gesù dicendo: «Che c'è fra me e te, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Io ti scongiuro, in nome di Dio, di non tormentarmi». È una formula di riconoscimento della figura di Gesù come Figlio di Dio, della sua divinità e del suo potere di guarigione e salvezza.

     Ma perché l'indemoniato chiede di non essere tormentato? Perché gli spiriti che lo possedevano e lo dominavano sanno bene che la sola presenza di Gesù è l'irruzione della luce nel mondo delle tenebre, è la fine della schiavitù, la vita nuova che irrompe per liberare dai ceppi e dalle catene spirituali tutti coloro che vivono come morti viventi, è l'ora della liberazione dei prigionieri e della punizione degli spiriti carcerieri. Gesù, dunque, rappresenta la rovina e la fine di quegli spiriti, che a ragione sono profondamente turbati per l'imminente giudizio di Dio. Gesù, infatti, chiede allo spirito immondo di uscire da quell'uomo. Qualunque sia la malattia, fisica o mentale, Gesù non tollera la condizione disumana di quell'uomo, che la sua dignità sia lesa e che l'immagine di Dio in lui sia oscurata da poteri tenebrosi.

     Ed è per questo motivo che Gesù gli chiede: «Qual è il tuo nome?». Gesù entra in relazione con quell'uomo con una domanda che è l'inizio della guarigione. Domanda di riconoscimento e di rispetto: «Dimmi, come ti chiami?». Il vero nome di quell'uomo non ci viene mai rivelato. Per tutti era un pazzo, un indemoniato, un forsennato da cui stare alla larga, che deve stare il più lontano possibile. Lui stesso non dice a Gesù il suo nome, ma rivela il nome di chi lo possiede. Il suo nome è Legione, perché è posseduto da una legione di spiriti (da notare che qui c'è un riferimento al dominio e all'oppressione romana che con le sue legioni avevano il controllo della Palestina).

 La punizione degli spiriti (vv.11-13)

     Dunque, Gesù vuole sapere da quell'uomo chi è e come si chiama. Ma gli risponde uno spirito, a nome di tutti gli altri spiriti, che prega Gesù di non mandarli via dal paese, ma di farli entrare in un branco di circa duemila porci dove trovare una nuova dimora. Gesù autorizza il loro trasferimento nei porci. Ma anche i porci, che forse mal tolleravano la presenza degli spiriti, impazziscono e precipitano nel mare. È la fine degli spiriti.

 La reazione degli abitanti della città (vv. 14-17)

     Il fatto è di una tale eccezionalità che non può essere tenuto nascosto. I mandriani dei porci si prodigano a raccontarlo dappertutto, in città e per le campagne, e scatenano la curiosità degli abitanti che vanno a rendersi conto dell'accaduto all'indemoniato e ai porci. Essi constatano una realtà completamente cambiata: l'indemoniato è una persona completamente normale, seduto, tranquillo e pacifico, sano di mente e i porci non ci sono più. Di fronte a questo scenario sono afferrati da un sentimento di paura che contagia tutti. La preoccupazione aumenta tanto che pregano Gesù di andar via. Stupisce il fatto che non una loro parola di ringraziamento e neanche di stupore sia rivolta a Gesù per la guarigione dell'indemoniato. Il testo ci indica solo il loro desiderio che Gesù vada via.

     Come mai questa reazione verso Gesù? È molto probabile che il timore degli abitanti fosse di ordine economico, perché la perdita di tanti porci costituiva un danno non indifferente arrecato all'economia della Decapoli. Dunque Gesù è visto più come una minaccia che come un guaritore.

Un uomo nuovo, inviato in missione (vv. 17-20)

     L'ex indemoniato, ormai guarito e ricondotto alla vita sociale, prega Gesù di potere stare sempre lui. Ma Gesù ha per quest'uomo altri progetti. Il compito che gli affida è di raccontare alla sua famiglia, ai suoi parenti e a tutti quelli che incontra le grandi cose che Gesù ha fatte e come il Signore abbia avuto pietà di lui. Dunque, è un incarico di testimone dell'amore di Gesù e della sua potenza di guarigione e di salvezza. E la sua testimonianza meraviglia tutti.

 L'insegnamento

     Il racconto di miracolo o di esorcismo parla ad ognuno di noi. D'alta parte tutto l'evangelo di Marco è rivolto ai suoi discepoli ovvero ad una comunità cristiana di origine pagana. Quindi è un vangelo rivolto oggi a tutte le persone che possono trarre un insegnamento personale. Gesù, infatti, è venuto tra noi che abitiamo la nostra "Decapoli" di impurità, di peccato, di contraddizioni, di violenze, cioè un mondo abitato da forze negative, diaboliche, che sono presenti nella nostra vita. È venuto incontro a noi per liberarci da tutti i mali da cui siamo afflitti e che tormentano la nostra umanità.

     Noi siamo l'indemoniato a cui Gesù vuole restituire la dignità di uomo libero, liberato dalle catene del pregiudizio, dai falsi moralismi e dalla legione di fantasmi che costringono a vivere come morti viventi, in una vita preclusa alla bellezza, alla relazione solidale e civile con la comunità sociale.

     L'incontro di Gesù con l'indemoniato ha conseguenze strabilianti: è un incontro di cambiamento e trasformazione. Come le tenebre si dissolvono quando arriva la luce così gli spiriti non possono sopportare la sua presenza. Quando Gesù entra nella nostra vita anche noi siamo trasformati e rinnovati. C'è una sorta di guarigione del cuore e della mente che investe il nostro rapporto con Dio e con il prossimo. Non c'è più spazio per i nostri interessi personali, ma ciò che prevale è l'ubbidienza al Signore e il perseguimento del bene comune, la convivenza pacifica, la solidarietà, la condivisione, la giustizia sociale.

Dunque, l'opera di Gesù per la salvezza del mondo appare qui, in questo racconto, in modo incontrovertibile. Molte forze ostili gli si oppongono ma il suo disegno di grazia, di perdono e d'amore per tutti gli uomini non può essere fermato.

     Il racconto ha anche la finalità, come avvenuto per l'indemoniato, di indicarci la via della missione e dell'apostolato dopo essere stati da lui guariti, rinnovati, salvati. Nessuno può rimanere indifferente, ma tutti siamo chiamati a testimoniare e a raccontare  "le grandi cose che il Signore ti ha fatte, e come ha avuto pietà di te" (vv. 19-20).

                                                                                        Aldo Palladino

                                                                                                               

17 gennaio 2021






CONOSCI TE STESSO

«Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno; chi potrà conoscerlo?» (Geremia 17:9).

«…non aveva bisogno della testimonianza di nessuno sull' uomo, poiché egli stesso conosceva quello che era nell'uomo» (Giovanni 2:25).


Meditazione del Past. Ruggiero Lattanzio

 

    A Delfi, nell'antica Grecia, c'era un tempio dedicato al dio Apollo e, sulla facciata dell'ingresso principale, i visitatori, prima di entrare, potevano leggere una scritta scolpita sulla pietra: "Conosci te stesso!". L'essere umano fin dagli albori della sua storia ha aspirato a conoscere se stesso e questo desiderio o, meglio ancora, questa esigenza esistenziale si è accentuata nelle grandi civiltà antiche, come in quella greca, dalla quale è nata la filosofia occidentale. A partire da Socrate, il "conosci te stesso" è diventato uno dei grandi temi che ha accompagnato la storia della filosofia fino ai giorni nostri. Socrate riteneva che ogni individuo può conoscere se stesso tramite un retto ragionamento. La sua funzione di filosofo era appunto quella di aiutare la gente a scoprire la verità che risiede nell'essere di ogni persona. In tal senso, per Socrate il mestiere del filosofo è simile a quello dell' ostetrica: l'ostetrica aiuta la donna a partorire il suo bimbo e il filosofo aiuta l'individuo a partorire i suoi pensieri. È questo il cosiddetto metodo maieutico (l'arte di far partorire) adottato dal filosofo. Socrate era convinto che la verità risiedesse in fondo al cuore di ogni essere umano e che, tramite la maieutica, fosse possibile portarla alla luce, come l'ostetrica porta alla luce il bambino. Da allora in poi la filosofia si è concentrata a conoscere meglio l'essere umano con l'ausilio della sola ragione. La filosofia però, lasciandosi guidare dalle categorie del pensiero umano non è andata molto lontana. Certamente essa è stata la madre di tante scienze umane e queste scienze hanno contribuito a far sì che oggi l'uomo conosca meglio il funzionamento del proprio corpo e della propria psiche. Ma, in fondo, l'essere umano continua ad essere un mistero per se stesso. Oggi la filosofia non è andata tanto al di là rispetto a Socrate, il quale giunse alla conclusione che il sapere più elevato al quale l'uomo possa arrivare è il sapere di non sapere e quindi l'essere consapevoli di non poter giungere alla piena conoscenza della verità e nemmeno alla piena conoscenza di se stessi. L'essere umano non potrà mai conoscere se stesso fino in fondo col solo ausilio della propria riflessione filosofica. Ogni tentativo intrapreso dall' uomo per conoscere se stesso funziona fino ad un certo punto, oltre il quale non riesce più ad andare.

     Aveva ragione allora il profeta Geremia quando scriveva che "il cuore dell'uomo è ingannevole più di ogni altra cosa". E, dopodiché, si chiedeva: "chi potrà conoscerlo?". 2 Noi non conosciamo quello che è in fondo al nostro cuore, nel profondo di noi stessi. Questo è quanto ha poi scoperto il fondatore della psicanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), venticinque secoli dopo Geremia! Freud distingueva nell'essere umano una parte conscia e una inconscia. Egli diceva che, come per un iceberg la parte che emerge dal mare è molto più piccola rispetto alla grande massa di ghiaccio che è immersa nel mare, allo stesso modo la coscienza di noi stessi è solo una piccola parte rispetto al nostro inconscio. Una simile scoperta dimostra appunto quanto poco ci conosciamo. Gran parte del nostro essere rimane sconosciuto a noi stessi. Ma ecco una buona notizia! L'evangelista Giovanni nella parte iniziale del suo Vangelo afferma che Gesù "conosceva quello che era nell'uomo". Cristo conosce l'uomo meglio di quanto questi conosca se stesso. Qui incontriamo un punto fondamentale della nostra fede cristiana che spesso trascuriamo: Gesù non è venuto soltanto per rivelare all'umanità chi è Dio ma è anche venuto per rivelarci chi è l'uomo..! Chi siamo noi veramente lo sapeva e lo sa soltanto lui, perché egli è stato pienamente uomo. Gesù ci manifesta il volto del vero Dio: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14:9). Ma Gesù ci manifesta anche il volto del vero uomo: "Ecco l'uomo!" (Gv 19:5). Il Concilio di Calcedonia (451 d.C.) ha, pertanto, definito Gesù "vero Dio e vero uomo". Nessun uomo è mai stato e mai sarà più umano di Gesù. E, siccome egli è stato l'uomo per eccellenza, proprio per questo sapeva riconoscere quello che era nel cuore di ogni uomo. Per fare degli esempi, Gesù riconobbe in Natanaele un suo futuro discepolo prima ancora d'incontrarlo personalmente (Gv 1:45-50). Gesù conosceva il cuore della donna samaritana che incontrò al pozzo di Giacobbe e le disse addirittura quanti mariti aveva avuto (ben cinque) e che allora conviveva con un uomo che non era suo marito (Gv 4:16-19). Alla vigilia della sua passione, Gesù sapeva già che Giuda lo avrebbe tradito e alla fine della cena si rivolse a lui dicendo: "quello che fai, fallo presto" (Gv 13:27). Egli sapeva anche che sarebbe stato rinnegato da Pietro e gli disse: "In verità in verità ti dico che il gallo non canterà che già tu non mi abbia rinnegato tre volte" (Gv 13:38). E infine Gesù sapeva bene che i suoi discepoli, dopo il suo arresto, lo avrebbero abbandonato. Egli infatti disse loro: "L'ora viene, anzi è venuta, che sarete dispersi, ciascuno per conto suo e mi lascerete solo" (Gv 16:32). Gesù conosceva i suoi discepoli molto meglio di quanto essi conoscessero se stessi. E, allo stesso modo, il Signore conosce anche ciascuno di noi molto meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Ciò significa che possiamo conoscere veramente noi stessi solo per mezzo di Cristo, che è l'unico che ci conosce fino in fondo. La conoscenza di noi stessi passa attraverso la nostra conoscenza di Gesù Cristo. Cristo è l'unico che conosce fino in fondo le debolezze, le angosce, le amarezze, le ansie e i timori che spesso noi nascondiamo anche a noi stessi. Egli conosce tutto di noi perché è stato uomo come noi e ha condiviso con noi ogni tentazione, ogni sofferenza e ogni paura. Anzi, egli è stato più uomo di ogni uomo, perché non ha soltanto condiviso ma ha anche vinto ogni tentazione, ha affrontato a testa alta ogni dolore e ha superato ogni paura, compresa quella della tortura e della morte. E allora, chi meglio di Gesù può conoscerci? Noi non riusciremo mai a conoscere pienamente noi stessi coi nostri sforzi personali, ma Cristo ci rivela chi siamo. Noi siamo delle creature che si sono allontanate da Dio pretendendo di essere autosufficienti. Questa nostra pretesa ci ha separati dalla fonte del nostro essere che è Dio, facendoci ricadere in una condizione esistenziale di alienazione (estraniazione) da Dio, da noi stessi e dal nostro prossimo, che la Bibbia chiama "peccato". Questo stato di alienazione ci ha resi degli esseri sempre più egoisti e sempre più infelici. L'egoismo, quale condizione esistenziale incentrata sui nostri bisogni, ci ha resi diffidenti gli uni verso gli altri e la diffidenza reciproca contribuisce a quell'autoisolamento che ci rende infelici. Il nostro cuore è immerso in questo vortice negativo senza che noi ce ne accorgiamo. Geremia così si chiedeva: "Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insaziabilmente maligno; chi potrà conoscerlo?" (Ger 17:9). Ma il Signore risponde alla domanda del profeta indicando se stesso come unica risposta. Ecco chi può conoscere il cuore di ogni uomo: "Io, il Signore, che investigo il cuore, che metto alla prova le reni, per retribuire ciascuno secondo le sue vie, secondo il frutto delle sue azioni" (Ger 17:10). Il nostro Signore, che si è rivelato a noi nella persona di Gesù Cristo, conosce il nostro cuore e ha anche il potere di trasformarlo. Egli può donarci un cuore disposto a seguirlo e a servirlo, un cuore non più ostile verso gli altri ma che sappia amare, un cuore non più diffidente ma fiducioso, un cuore non più infelice ma gioioso. Soltanto per mezzo di Gesù Cristo possiamo ricevere un cuore nuovo, ossia, una identità rinnovata, non più incentrata su se stessa ma aperta all'incontro con Dio e cogli altri. Affidiamo allora la nostra vita al Signore e, attraverso di Lui che ci conosce fino in fondo, potremo recuperare il senso originario della nostra identità umana! Noi siamo stati creati per essere in relazione con Dio come suoi "figli" ma, a causa del peccato, abbiamo smarrito la ragion d'essere della nostra esistenza. Ora, però, la nostra identità di "figli di Dio" ci viene ridonata per grazia mediante la fede in Gesù Cristo. Gesù disse: "Io sono il buon pastore e conosco le mie [pecore] e le mie [pecore] conoscono me" (Gv 10,15). Dio, in Cristo, ci conosce personalmente uno per uno: non noi ma Lui sa veramente chi siamo! Di fronte a questo messaggio evangelico, non si può che giungere a questa conclusione: soltanto stabilendo una relazione personale con Cristo, potremo ritrovare noi stessi e, alla sua luce, riscoprire chi siamo noi per Dio, per il nostro prossimo e per noi stessi.

 

                                                                                                   Ruggiero Lattanzio