I Pietro 4:7-11
Una meditazione di Aldo Palladino
Il testo biblico
7 Or la fine di tutte le cose è vicina; siate dunque temperati e sobri per dedicarvi alla preghiera.
8 Sopra ogni cosa, abbiate amore intenso gli uni per gli altri, perché l'amore copre una gran quantità di peccati.
9 Siate ospitali gli uni verso gli altri senza mormorii.
10 Ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta al servizio degli altri, come buoni amministratori della svariata grazia di Dio.
11 Se uno parla, parli come annunciando oracoli di Dio; se uno compie un servizio, lo compia come traendo la forza che Dio fornisce, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e l'imperio nei secoli dei secoli. Amen.
Introduzione
La I epistola di Pietro è stata scritta intorno al 63-64 d.C. ed indirizzata alle comunità sparse in cinque province dell'Asia Minore: il Ponto, la Galazia, la Cappadocia, l'Asia e la Bitinia (odierna Turchia). È una lettera dal tono pastorale che aveva lo scopo di incoraggiare quei primi cristiani a perseverare nel loro cammino di fede in un ambiente economico-sociale molto diffidente verso di loro. La loro conversione al cristianesimo creava delle fratture nella società e nelle loro stesse famiglie, perché non partecipare ai culti pagani, rifiutare il culto dell'imperatore romano era visto come un atto sovversivo e antisociale, era considerato una minaccia all'ordine pubblico. E tutto questo portava all' isolamento sociale e generava forti ostilità nei loro confronti, per cui spesso venivano discriminati, perdevano il lavoro e li esponeva perfino alla violenza fisica e alla persecuzione. A tali credenti, che vivevano una condizione di minoranza e che erano anche molto disorientati, Pietro scrive dunque questa epistola esortativa alla perseveranza e alla fedeltà al Signore che viene.
"La fine di tutte le cose è vicina"
Il testo della I Pietro 4:7-11 inizia con un'affermazione che ha un tono escatologico: "la fine di tutte le cose è vicina" (v.7). Non è una minaccia né un'intimidazione, ma un'esortazione all'attesa e alla vigilanza, cioè a vivere il presente avendo gli occhi fissi sul mondo a venire, ma con i piedi ben piantati nelle sfide e nelle opportunità del nostro tempo. I primi cristiani pensavano che il ritorno di Cristo fosse imminente e questa aspettativa modellava il loro modo di vivere.
E noi, credenti del XXI secolo, come reagiamo di fronte a questa esortazione di Pietro?
Dobbiamo sinceramente ammettere che le scoperte scientifiche e lo sviluppo tecnologico di questi ultimi tempi hanno influenzato il nostro modo di pensare e di vivere. Il crescente affidamento alla scienza e alla tecnologia ha contribuito alla secolarizzazione della società, alla nostra secolarizzazione. Il progresso scientifico ha messo in discussione molti dogmi religiosi, erodendo lentamente il ruolo della religione nella vita pubblica e privata. Nei paesi più sviluppati, il rapporto con la religione è divenuto sempre più personale e meno istituzionalizzato. L'idea di un Dio che interviene direttamente nella vita quotidiana sembra essere stata sostituita, per molte persone, da una visione più distaccata, in cui il soprannaturale ha un ruolo secondario rispetto alle spiegazioni razionali.
Siamo stati trascinati nella frenesia del consumismo digitale e abbiamo alimentato la cultura del "sempre connessi", riducendo sempre di più lo spazio per l'introspezione e la meditazione spirituale, che richiedono tranquillità e distacco. In sintesi, siamo diventati tutti più materialisti e abbiamo relativizzato i fondamenti di una vita cristiana autentica, che consideriamo anacronistici, appartenenti a un tempo passato.
Ma dobbiamo interrogarci quale sia il prezzo pagato per la perdita della dimensione spirituale, perché nonostante i progressi materiali, ci sentiamo profondamente insoddisfatti, infelici e alienati. Siamo tutti più soli e disumani, perché abbiamo ridotto o perso il nostro rapporto con Dio, abbiamo spezzato il legame col trascendente e abbiamo spostato l'attenzione dall'invisibile al visibile, dall'infinito al misurabile, volgendola al mondo tangibile e alle sue forme di seduzione.
Ma ecco che l'apostolo Pietro con le sue parole ci vuole oggi portare a riconsiderare la nostra vita di fede in Dio e in Gesù Cristo. "La fine di ogni cosa è vicina" ci dice che dobbiamo fare i conti con la nostra finitudine, con la precarietà della nostra vita e, soprattutto, con la realtà futura che un giorno incontreremo il Signore. È una realtà che ci pone di fronte alla nostra responsabilità di saper utilizzare il nostro tempo, le nostre energie e i nostri doni qui ed ora.
Come?
Pietro ci dà le indicazioni per una vita cristiana vera, non fatta di parole ma vissuta, pratica. Egli ci dice quali sono le virtù che nutrono la vita cristiana.
LE VIRTÙ DEL CRISTIANO
1. Temperanza e sobrietà (v. 7). Essere temperanti e sobri per avere una vita di preghiera, cioè una vita di relazione con Dio, un colloquio permanente col Signore che alimenta il nostro pensiero e i nostri sentimenti. Si prega non necessariamente a parole. Si prega pure avendo un cuore e una mente rivolte al Signore per ringraziarlo, lodarlo e per intercedere per i bisogni del mondo.
2. Amore intenso gli uni per gli altri, "perché l'amore copre moltitudine di peccato" (v. 8). L'amore è il principio cardine del cristianesimo. Gesù ha riassunto ha riassunto tutta la legge in due comandamenti principali: amare Dio e amare il prossimo come se stessi (Matteo 22, 37-40). Amare è imitare l'amore infinito e incondizionato di Dio per l'umanità espresso col dono di suo Figlio sul legno della croce (Giovanni 3,16). È un amore che crea legami di fraternità, di solidarietà e che rafforzano le relazioni all'interno di una comunità, perché l'amore favorisce il perdono dei peccati, quelli propri e quelli altrui, avviando un processo di riconciliazione e di riparazione dei danni provocati dal peccato. In una comunità, i peccati come l'orgoglio, la gelosia, l'invidia, l'egoismo, la ricerca del potere personale possono distruggere le relazioni, creare divisioni e conflitti. Ma l'amore, inteso come compassione, pazienza e tolleranza, ha il potere di "coprire" questi peccati, ovvero di attenuare i loro effetti distruttivi.
Nelle relazioni della società civile sembra utopistico parlare di amore ma non è così. Le leggi che regolano la convivenza e garantiscono un certo ordine sociale possono creare le condizioni in cui l'amore può prosperare. L'amore non è separato dalla giustizia, dalla pace, dalla libertà. Sono concetti interconnessi e interdipendenti perché l'amore si esplica in tutte le svariate forme all'interno delle reazioni umane. Ad esempio Martin Luther King e il Mahatma Gandhi hanno considerato l'amore, espresso nella nonviolenza, come una forza potentemente trasformativa nelle loro battaglie per il cambiamento sociale. Dunque, l'amore può certamente essere espresso in una società e, anzi, può essere un motore per migliorare le leggi e le strutture sociali.
3. Ospitalità senza mormorii (v. 9).
L'ospitalità era una virtù fondamentale nelle prime comunità cristiane per diverse ragioni di natura teologica, sociale e pratica. Il concetto di accoglienza e ospitalità aveva radici profonde sia nel contesto culturale dell'antichità che nell'insegnamento cristiano. Nelle radici bibliche troviamo vari racconti di ospitalità: Abramo che accoglie degli stranieri, che poi si rivelano degli angeli, (Genesi 18) e, nel Nuovo Testamento, Gesù predica e pratica l'ospitalità di peccatori, poveri e malati ed esorta i discepoli a trattare lo straniero come si tratterebbe lui stesso: "Ero straniero e mi avete accolto" (Matteo 25:35). C'è anche da considerare che in quei tempi l'ospitalità era una forma di mutua assistenza e i viaggiatori, i missionari, i predicatori dovevano avere un posto sicuro dove riposarsi visto che all'epoca non c'erano hotel o alberghi. Peraltro, nelle comunità era dimostrazione di unità e fraternità, soprattutto solidarietà in tempi di persecuzione, ed espressione di fede e carità cristiana. Oggi, la pratica e la cultura dell'ospitalità l'abbiamo abbandonata sia perché nella nostra società occidentale sono cresciuti i servizi sociali sia perché il benessere economico ha accresciuto l'individualismo e l'autonomia personale che non richiede l'aiuto di altri.. In più, si è aggiunta oggi la paura dello straniero e l'ospitalità di una volta è stata fortemente marginalizzata e compromessa. L'ospitalità va oltre l'accoglienza fisica: è un atteggiamento del cuore che abbraccia l'altro con calore e accoglienza. Pietro aggiunge "senza mormorii", indicando che l'ospitalità non deve essere offerta con riluttanza o risentimento, come un peso, ma con gioia. Questo vale anche per noi nel 2024. Anche se viviamo in un mondo più complesso, l'ospitalità rimane un valore fondamentale per la chiesa come anche per la famiglia. In un'epoca di isolamento sociale e fratture relazionali, la chiesa è chiamata a essere un luogo di accoglienza e inclusione, dove chiunque si senta benvenuto. Essere ospitali oggi potrebbe significare aprire le nostre case, ma anche i nostri cuori, creando spazi di ascolto, supporto e cura reciproca. È un invito a praticare la generosità e a vedere l'altro come un dono di Dio.
4. La buona amministrazione della svariata grazia di Dio (10).
Chi ha ricevuto il compito di amministrare la svariata, multiforme grazia di Dio ha il privilegio di svolgere un servizio in nome e per conto di Dio. E poiché Dio è pieno amore, misericordia e grazia, quel servizio deve essere lo specchio o il riflesso di questi attributi divini. Occorre servire Dio con umiltà senza trionfalismi, avere amore per il prossimo offrendo aiuto ai bisognosi, conforto a chi è afflitto e sostegno a chi è in difficoltà. E soprattutto bisogna avere comportamenti benevoli senza giudizi e pregiudizi, cercando di non giudicare ma di comprendere e perdonare con saggezza e responsabilità. Non è un compito facile ma impegnativo, che deve essere svolto con molto discernimento, con costanza e perseveranza e soprattutto con la finalità di glorificare il Signore.
5. Servire gli altri coi propri doni (11).
Compito di tutti i credenti è di mettere i talenti, i doni ricevuti al servizio degli altri e della chiesa, perché essi ci sono stati dati non solo per il nostro beneficio ma per anche per il bene degli altri e della comunità. Pietro dice: "Ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta al servizio degli altri, come buoni amministratori della svariata grazia di Dio". Ogni credente ha ricevuto doni particolari da Dio, e la chiesa è edificata quando ognuno utilizza i propri doni per il bene comune. I doni che Dio ci dà non sono per il nostro vantaggio personale o per il nostro orgoglio, ma per servire gli altri. La chiesa è un corpo, e ogni membro ha un ruolo unico da svolgere. Nel 2024, siamo chiamati a riscoprire i nostri doni e a metterli in gioco per l'edificazione della chiesa e il servizio del mondo. Questo include non solo doni spirituali come l'insegnamento, la profezia o il discernimento, ma anche capacità pratiche, come il lavoro manuale, l'arte, la tecnologia o la leadership. Il mondo ha bisogno di vedere una chiesa in azione, che usa ogni suo dono per portare luce dove c'è tenebra, guarigione dove c'è ferita, e speranza dove c'è disperazione.
Nel versetto 11 del nostro testo, Pietro ricorda che "se uno parla, parli come annunciando oracoli di Dio; se uno compie un servizio, lo compia come traendo la forza che Dio fornisce, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo". Dei doni presenti nella comunità dei credenti Pietro evidenzia quello della predicazione e della diaconia. Predicare o parlare "come oracoli di Dio" non significa avere risposte divine su ogni argomento, ma piuttosto parlare con la consapevolezza che le nostre parole devono edificare, incoraggiare e portare verità. E nel mondo di oggi, dove la comunicazione è spesso distorta e conflittuale, anche i credenti sono chiamati a essere portatori di parole di vita e di speranza. Allo stesso modo, la diaconia, ogni nostro servizio di assistenza, deve essere fatto non per ottenere riconoscimento personale, ma per mostrare la potenza di Dio all'opera in noi. Infatti, è il Signore che dona la forza per un servizio che Lo possa glorificare.
In questi tempi bui e tormentati, il nostro mondo è immerso in una spirale di violenza che sembra non avere fine. Guerre devastanti, massacri, genocidi disumani affliggono intere popolazioni, distruggendo vite innocenti e portando l'umanità a livelli di crudeltà che spezzano il cuore. Gli orrori che vediamo nei conflitti tra Russia e Ucraina, tra Israele e i paesi limitrofi del mondo musulmano, sono solo alcuni dei segni più evidenti della follia diffusa che sta divorando il nostro mondo. Ora più che mai, è indispensabile un ritorno a Dio, alla Sua giustizia, alla Sua misericordia. Come comunità di credenti, dobbiamo essere fari di luce nelle tenebre. Dobbiamo impegnarci a costruire ponti dove altri innalzano muri. Dobbiamo pregare incessantemente per la pace, ma anche lavorare attivamente per essa, testimoniando con le nostre vite la potenza trasformante del Vangelo. Non possiamo più permettere che il male regni sovrano nel mondo; siamo chiamati a essere sale e luce (Mt. 5, 13-16), come Gesù ci ha insegnato. Questo richiede un impegno rinnovato, un ritorno a Dio con tutto il cuore. Solo con la Sua grazia possiamo trovare la forza per affrontare le sfide che abbiamo davanti. Solo attingendo alla fonte inesauribile del Suo amore possiamo rispondere alla violenza con pace, all'odio con perdono, alla disperazione con speranza. Oggi più che mai il mondo ha bisogno della testimonianza viva della nostra fede. Non lasciamo che le tenebre della malvagità prevalgano. Ritorniamo a Dio e mostriamo al mondo che un'altra via è possibile. Che la pace di Cristo regni nei nostri cuori, nelle nostre comunità, e in tutta l'umanità.
Amen.
Aldo Palladino