Romani 11, 25-36
Scheda esegetico-omiletica
a cura di Andrea Mela
Premessa
Il nostro lezionario 2016 "Un giorno una parola" (Ed. Claudiana) propone la pericope di Rm 11, 32-36 mettendo il v. 32 solo tra parentesi cioè, mi pare di capire, come opzionale. L'accento andrebbe quindi posto tutto sull'inno contenuto nei vv. 33-36. Ma a proposito del v. 32 "Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti", Karl Barth, nel suo trattato su "L'Epistola ai Romani", scrive[1]:
« ... in queste parole si esprime l'assioma tremendamente inquietante in cui si dovrebbe trovare la chiave dell'intera Epistola ai Romani (e non soltanto dell' Epistola ai Romani) … [Questo passo] è il metro a cui tutto deve essere misurato, il peso a cui tutto deve essere pesato. Esso è, per ogni lettore o uditore personalmente, il criterio della doppia predestinazione di cui vuole evidentemente chiarire il significato ultimo. Si deve intendere in senso pregnante il divino "rinchiudere" di cui qui si parla e in senso pregnante la divina "misericordia"; in senso pregnante il primo e in senso pregnante il secondo pronome "tutti". … In questa dichiarazione si rivela il Dio nascosto, sconosciuto, inconcepibile, a cui nulla è impossibile, Dio il Signore, che come tale è il nostro Padre in Gesù Cristo. … Qui l'oggetto della fede ... . Qui l'essenza del cristianesimo … . La chiesa ha una speranza. Questa. Non ne ha alcun'altra. Potesse comprendere questa! »
Davanti a queste parole autorevoli penso che le parentesi debbano cadere. Proverei dunque a partire da qui: l'inno è ciò che naturalmente e spontaneamente consegue e funge da corona lirica al lungo discorso sul rapporto tra il vangelo e gli Israeliti che inizia al cap. 9 e culmina con la sintesi teologica che si trova nei vv. 25 – 32 del capitolo 11. Non potendo leggere tre interi capitoli della lettera credo sia opportuno ricordare almeno questi 8 versetti.
25 Infatti, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi: un indurimento si è prodotto in una parte d'Israele, finché non sia entrata la totalità degli stranieri; 26 e tutto Israele sarà salvato, così come è scritto:
«Il liberatore verrà da Sion.
27 Egli allontanerà da Giacobbe l'empietà;
e questo sarà il mio patto con loro,
quando toglierò via i loro peccati».
28 Per quanto concerne il vangelo, essi sono nemici per causa vostra; ma per quanto concerne l'elezione, sono amati a causa dei loro padri; 29 perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili. 30 Come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio, e ora avete ottenuto misericordia per la loro disubbidienza, 31 così anch'essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch'essi misericordia. 32 Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti.
33 Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!
Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie!
34 Infatti «chi ha conosciuto il pensiero del Signore?
O chi è stato suo consigliere?
35 O chi gli ha dato qualcosa per primo,
sì da riceverne il contraccambio?»
36 Perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose.
A lui sia la gloria in eterno. Amen.
25-26a – mystèrion: nell'uso paolino questa parola indica il disegno salvifico di Dio che si è rivelato con l'avvento di Cristo ma rimane sempre un "mistero"[2] ossia una realtà superiore ed inaccessibile all'intelletto umano. Qui però indica un aspetto particolare di questo disegno cioè il ruolo di Israele.
– Indurimento (pòrosis). Nel primo testamento la resistenza alla volontà di Dio, definita (a partire da Esodo 4, 21[3]) appunto come l'indurirsi del cuore, è molto spesso (come lo è anche qui) il risultato della stessa volontà di Dio.
– In una parte di Israele. Questa parzialità si contrappone alla totalità (plèroma) degli stranieri ed al "tutto Israele" (pas Israèl) del v. 26[4]. E' importante che alla salvezza di tutti gli stranieri sia accostata la salvezza piena del popolo eletto: non solo "il resto", ma il popolo in quanto tale, l'Israele complessivo.
26b-27 – «Il liberatore verrà da Sion. … "Si tratta di una citazione composta che riprende quasi esattamente la versione greca (LXX) di Isaia 59, 20-21a, seguita da una frase ripresa da Isaia 27,9. La citazione originale di Isaia 59, 20 potrebbe essere riferita a Dio stesso, ma ci sono letture rabbiniche che la leggono in riferimento al Messia ed è probabile che Paolo la comprendesse in questo modo"[5]. In ogni caso l'intento di Paolo è quello di evidenziare la natura di questa liberazione: il perdono misericordioso dei peccati di Israele.
28-29 – nemici per causa vostra / amati a causa dei loro padri. L'essere nemici (disubbidienti) è per Israele un dato temporaneo ed è a vantaggio dei pagani perché, respinti dai Giudei, i ministri della parola sono stati sospinti a predicare l'evangelo fra i gentili. L'essere amati è invece un dato permanente che resta inalterato anche nel tempo della "inimicizia" perché si fonda sulla causa prima di ogni cosa: l'amore e la fedeltà di Dio[6]: irrevocabili sono infatti i suoi doni e la sua chiamata (klèsis).
30-31 – I due versetti formano un parallelo perfetto tra le sorti dei due popoli. E' notevole che la disubbidienza (apèitheia) degli Israeliti, da un lato, e la misericordia (èleos) offerta ai pagani, dall'altro, siano definiti entrambi come strumenti di cui Dio si serve per il fine ultimo che è la salvezza di tutti[7].
32 – Dio infatti ha rinchiuso tutti (synèkleisen ... tus pàntas).
L'aoristo indica un avvenimento puntuale ed unico: il versetto fornisce la necessaria spiegazione dei due precedenti. Tutta l'umanità è prigioniera della propria disubbidienza: questo è un dato di fatto di fronte al quale si pone la misericordia divina che, sola, può e desidera ridare a tutti gli esseri umani la libertà. Cranfield osserva che se da un lato questo doppio "tutti" potrebbe orientare verso un universalismo dogmatico, d'altro lato la contrapposizione fra la prima parte della frase (la constatazione) e la seconda (la manifestazione di intenti) spinge ad essere più cauti.
33-36 – Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!
Questa pericope ha la forma di un inno articolato in 4 strofe, ciascuna corrispondente ad un versetto. L'insieme presenta un carattere sapienziale. I tre concetti di ricchezza (plùtos), sapienza (sofìa) e conoscenza (gnòsis) del v. 33 vengono ripresi in ordine inverso dalle domande dei vv. 34-35. Il v. 34 ricalca il testo della LXX di Isaia 40, 13; la prima domanda è riferita alla conoscenza, la seconda alla sapienza[8]. Il v. 35 riecheggia Giobbe 41, 3[9] e richiama la smisurata ricchezza dei doni di Dio.
Lo stile letterario di 36a potrebbe riflettere un uso della tradizione stoica ma qui Paolo, ben lontano da ogni forma di panteismo, afferma che quel Dio che agisce in Cristo per la salvezza dell'uomo, è lo stesso Dio creatore, reggitore, sovrano e punto finale di ogni cosa.
Da questa affermazione nasce la dossologia conclusiva di 36b che è invece di estrazione giudaica.
Al centro della preghiera di Paolo, il cui impatto emozionale sembra rispondere all'apertura dolorosa del tema (in 9, 1-5), ritroviamo il mistero esplicitato ai vv. 25-26 ma ora espresso in forma di meraviglia e di lode: Dio mette in atto un dinamismo prodigioso che agisce nel lungo termine a beneficio di tutta la sua creazione e attrae l'umanità intera nel flusso del suo amore.
La domanda a cui Paolo cerca di dare risposta è la seguente: «Israele che non ha riconosciuto Gesù come Figlio di Dio e come Messia, è stato estromesso dalla salvezza?». E' una domanda seria e difficile.
Se si risponde di sì, che Israele è fuori dalla salvezza, allora l'elezione che Dio ha dato a Israele è decaduta e ora passerebbe ai cristiani, essi diventerebbero il popolo eletto, il nuovo Israele e Dio avrebbe rinnegato il vecchio Israele.
Se si risponde di no, che Israele è e resta popolo di Dio, allora che ruolo avrebbero i cristiani nel suo progetto di salvezza?
Per uscire da questa contraddizione Paolo ricorre al concetto di "mistero". La ragione umana si può solo inchinare di fronte all'agire inatteso e "ininvestigabile" di Dio. L'apostolo non ricorre ad una rivelazione particolare: gli basta credere sia all'elezione di Israele, sia al Vangelo, per credere anche alla conversione ed alla salvezza finale del popolo eletto. La rivelazione di Gesù Cristo compie la promessa fatta ad Abramo e non può essere intesa senza di essa. Questa fede diventa poi anche un appello ai pagano-cristiani a rifuggire dalla tentazione di ergersi a sostituti di Israele nel progetto divino.
In sostanza Romani 11, 25-36 riflette (come tutta la sezione 9 - 11) il travaglio interiore di Paolo nella sua condizione di fariseo zelante divenuto apostolo dei gentili ma libera un forte messaggio di fiducia per il presente e di speranza per l'avvenire.
Spunti per la predicazione
Certo non si può eludere il tema del rapporto tra Israele e "noi" ma credo che sia preferibile evitare la tentazione di attualizzare il testo in senso geo-politico: una cosa è il moderno stato di Israele, altra cosa è l'ebraismo (compreso quello moderno). A mio avviso occorre tenere ben distinte le due dimensioni malgrado i forti legami che uniscono le comunità ebraiche sparse nel mondo con "Eretz Ysrael"[10].
Mi sembra che nel nostro brano ci siano due parole che possono orientare la predicazione: la prima è "tutti" (v. 32). Questa parola risuona già nella promessa di Dio ad Abramo: «in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen. 12: 3) e ritorna più volte anche negli scritti[11].
Dio non fa distinzioni su base etnica, culturale o religiosa ma percorre strade a noi sconosciute per benedire (salvare) il genere umano nel suo complesso. Il Signore tratta tutti noi per quello che siamo, con la nostra parzialità, la nostra finitezza, il nostro peccato, affinché nei confronti di tutti si manifesti la sua misericordia, la sua grazia e il suo amore. A questo riguardo Molti studiosi[12] ci diffidano dal pensare che Paolo insegni una salvezza universalistica, cioè che tutti siano salvi quasi "automaticamente" per mezzo di Gesù Cristo, anche coloro che non credono in lui o addirittura i malfattori. Certo non c'è nessun automatismo e soprattutto (come dice Paolo) nessuna possibilità di indagare la libertà di Dio; però qui l'apostolo dei non ebrei, vuole ricordare loro che non hanno alcun motivo di sentirsi superiori per aver abbracciato la nuova fede: quanto a disubbidienza e quanto a misericordia siamo tutti sullo stesso piano.
La seconda parola è "mistero": questo è il tema dell'inno conclusivo: il mistero di Israele diventa metafora del mistero di Dio. la sapienza di Dio può trasformare il male in bene per fare uscire tutti dalla disubbidienza. L'obbedienza è la misura della vera fede. Dio non chiede il permesso di nessun uomo, di nessuna chiesa, di nessuna teologia per essere misericordioso. L'inno di Paolo è un canto di ammirazione e di sbalordimento. La Scrittura rivela la volontà di Dio, ma qui la Scrittura stessa rivela ciò che ci può soltanto stupire. Allora Paolo ferma per un momento i suoi ragionamenti, la sua "razionalità" e canta il mistero di Dio che si è rivelato ma che tuttavia rimane al di fuori di noi.
Forse anche noi ogni tanto avremmo bisogno di fermare per un momento la nostra razionalità e tornare ad essere capaci di meravigliarci di fronte al mistero. Il messaggio cristiano annuncia una verità che non è evidente e che non non si trova come un'idea già presente nel cuore dell'uomo. Il Vangelo ci rivela cose che non avremmo potuto immaginare nè desiderare; tuttavia questa rivelazione, questa verità che ci supera, può essere contemplata e ammirata. Dio ha pensato l'opera della salvezza prima che noi ci fossimo e l'ha portata a compimento per noi e malgrado noi. E' un'opera soltanto sua. Solo quando si comincia ad avere una percezione della profondità infinita della sapienza di Dio, ci si può rendere conto di quanto poco sappiamo e di quanto, invece, dobbiamo essere grati al Signore.
Un'ultima considerazione: se "l'indurimento" del cuore umano può a volte corrispondere alla volontà di Dio, oggi, diversamente da Paolo, noi ci troviamo in un'epoca di indurimento generalizzato che non riguarda più Ebrei o non Ebrei ma coinvolge tutti i popoli e in particolare il nostro occidente. Oggi il rifiuto di Israele di riconoscere la messianicità di Gesù non sorprende né scandalizza i cristiani i quali, anzi, ora trovano del tutto normale che ciò sia storicamente avvenuto e che tuttora perduri, nè gli Ebrei vedono nel cristiano necessariamente un nemico.
Intendo dire che forse si dovrebbe provare a spostare il discorso dall'ottica del rapporto fra Giudei e cristiani, entrambi ormai minoranze (seppure consistenti) in una società largamente secolarizzata, a quello fra credenti e non-credenti (uso questo termine solo per brevità). Il cambiamento radicale che si è prodotto con l'allontanamento di una parte consistente dell'umanità dalla sfera religiosa non potrebbe forse essere letto come uno dei sentieri misteriosi che Dio percorre "per far misericordia a tutti" ?
Testi di appoggio: Salmo 145, 9-21; Matteo 16, 15-20.
Testi utilizzati:
- Karl Barth, L'Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Feltrinelli (MI), 1962.
- Karl Barth, Breve commentario all'epistola ai Romani, Queriniana (BS), 1985.
- C. E. B. Cranfield, La lettera di Paolo ai Romani (Capitoli 9-16), Claudiana (TO), 2000.
- Giovanni Torti, La lettera ai Romani, Paideia Ed. (BS), 1977.
- Franz J. Leenhardt, L'épitre de Saint Paul aux Romains, Délachaux et Niestlé, Neuchatel (CH), 1957.
- Paul J. Achtenmeier, Romani, Claudiana (TO), 2014.
- Henri Piguet, Romains 11, 25-36: Le salut d'Israël, In: "Lire et dire" N. 62 (4/2004).
- Paul Althaus, La lettera ai Romani, Paideia Ed. (BS), 1970.
- Frederick F. Bruce, L'Epistola di Paolo ai Romani, Edizioni G.B.U. (Roma), 1979.
- Giorgio Tourn, La predestinazione nella Bibbia e nella storia – una dottrina controversa, Claudiana (TO), 1978.
[1] Karl Barth, L'Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Feltrinelli, 1962, pag. 404
[2] Barth sostiene che nell'accezione di Paolo il termine mistero può equivalere a quello che noi chiamiamo paradosso.
[3] Il SIGNORE disse a Mosè: «Quando sarai tornato in Egitto, avrai cura di fare davanti al faraone tutti i prodigi che ti ho dato potere di compiere; ma io gli indurirò il cuore ed egli non lascerà partire il popolo.
[4] In relazione al ristabilimento finale dell'alleanza cfr. Malachia 4,4-6: «Ricordatevi della legge di Mosè, mio servo,
al quale io diedi sull'Oreb, leggi e precetti, per tutto Israele. Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del SIGNORE, giorno grande e terribile. Egli volgerà il cuore dei padri verso i figli, e il cuore dei figli verso i padri, perché io non debba venire a colpire il paese di sterminio».
[5] Così Cranfield; Barth nel suo "Breve commentario") vi legge anche un richiamo a Geremia 31, 31-34.
[6] Cfr Deuteronomio 7, 7 s.
[7] La costruzione del testo greco del v. 31 presenta notevoli difficoltà di interpretazione. La traduzione di G. Torti lo rende come segue: "... così ora essi [gli Israeliti] hanno rifiutato l'obbedienza di fronte alla misericordia accordata a voi per ottenere a loro volta misericordia ". La TOB traduce: " … allo stesso modo anch'essi ora hanno disobbedito, in seguito alla misericordia usata verso di voi, affinché siano ora anch'essi oggetto della misericordia" e commenta: la difficile costruzione di questa frase riflette la complessità del rapporto di causalità che Paolo stabilisce tra la storia degli uni e quella degli altri.
[8] Per il giudaismo la sapienza è insita nel pensiero di Dio e lo assiste nella creazione. Cfr Proverbi 8, 22:
"Il SIGNORE mi ebbe con sé al principio dei suoi atti,prima di fare alcuna delle sue opere più antiche."
[9] Gb 41, 3 "Chi mi ha anticipato qualcosa perché io glielo debba rendere?"
[10] Su "Lire et dire" N. 62 (4° trimestre 2004) si legge una proposta di predicazione su Rm 11, 25-36 di Henri Piguet (pastore della chiesa riformata in Svizzera) in cui si definisce lo stato di Israele "guerriero, arrogante, tentacolare … violento della violenza peggiore, quella che crede di potersi fondare su qualche passo biblico staccato dal contesto" e prosegue: "La vittima è diventata carnefice. Per tutta una generazione di cristiani presso di noi, Israele è come un amore deluso" (traduzione mia). Anche se l'autore tenta di separare quelle che ai suoi occhi sono le nefandezze dello stato israeliano dal debito che "noi" abbiamo con l'ebraismo, mi auguro di non dover mai ascoltare giudizi così sommari dai pulpiti delle nostre chiese: il conflitto arabo-israeliano è cosa ben più seria e complessa.
[11] Cfr Salmo 145, in particolare v. 14: Il Signore sostiene tutti quelli che cadono e rialza tutti quelli che sono curvi.
V. 18: Il Signore è vicino a tutti quelli che lo invocano in verità.
[12] Ad es. P. Althaus (pag 220): "tutti" non significa tutti i singoli uomini ma le due parti del genere umano, i Giudei e i pagani. … [Paolo] prospetta per l'umanità una duplice possibilità nel giudizio finale … (cfr 2 Tess. 1, 6 ss.).
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