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04 settembre 2014

DOMANDA & RISPOSTA


Israele e la chiesa: due popoli eletti? O uno solo?


L'articolo che qui pubblichiamo è stato tratto dalla rubrica 
Dialoghi con Paolo Ricca  del settimanale Riforma del 29 luglio 2011.
Risponde in modo chiaro e sintetico a molte domande non facili poste
da un lettore di quella pubblicazione e può essere utile per approfondire
i temi affrontati con uno studio personale sulla teologia dell'Antico e del Nuovo Testamento.
                                                                                     Aldo Palladino

Domanda

Alcuni mesi or sono, durante un incontro promosso dall'Amicizia ebraico-cristiana, si conveniva nella constatazione che il patto tra Dio e il popolo d'Israele, non essendo stato rescisso, è tuttora valido. Israele resta il popolo eletto. Ne consegue, a mio parere, che la salvezza avviene anche attraverso l'ebraismo, quindi per mezzo della Legge. Per i cristiani invece la salvezza avviene per mezzo di Cristo (i cattolici poi assegnano alla Chiesa un ruolo essenziale nella trasmissione della salvezza). Ora avendo, come dire?, il solo Padre in comune, come è collocabile teologicamente l'«aspetto trinitario»? È ipotizzabile una «doppia via alla salvezza », figlia dello stesso Dio Padre, ma con sviluppi differenziati: uno in direzione della Legge, l'altro in direzione di Cristo, comunicata attraverso il suo «corpo», la Chiesa? Mi scuso se mi pongo domande magari banali, ma è un po' che ci penso, e non  riesco a venirne a capo.
Un lettore di Albano Laziale

Risposta di Paolo Ricca (Professore emerito della Facoltà Valdese di Teologia di Roma)

Il nostro lettore ha l'impressione di porre a se stesso e a noi domande «magari banali», ma le pone ugualmente perché non gli riesce di venirne a capo. In effetti non è facile venirne a capo. Comunque non si tratta affatto di domande banali, perché riguardano temi cruciali della fede cristiana nei suoi rapporti con l'ebraismo, sui quali nelle nostre Chiese si riflette troppo poco. Le domande, se ho letto bene, sono quattro. La prima riguarda la «constatazione» (così la chiama il nostro lettore) che il popolo ebraico, malgrado il suo rifiuto di riconoscere Gesù di Nazareth come suo Messia, continua a essere popolo eletto. La domanda è: le cose stanno proprio così? La seconda domanda riguarda le vie di salvezza: sono una o due? È giusto dire che ci si può salvare in due modi: per la via ebraica, cioè attraverso l'osservanza della Legge, e per la via cristiana, cioè attraverso Cristo e la grazia? O invece dobbiamo, come cristiani, affermare Cristo come unica via di salvezza, e negare quindi che le vie di salvezza siano due (o anche di più)? La terza domanda riguarda il ruolo della Chiesa nella comunicazione della salvezza: è un ruolo da protagonista o invece un semplice ruolo di servizio? Sta dentro il processo di salvezza come sua parte integrante o ne sta fuori come l'araldo rispetto al messaggio che annuncia? La quarta domanda riguarda la visione e concezione di Dio, Padre comune a ebrei e cristiani: come si colloca, in questo quadro, la dottrina trinitaria professata dai cristiani? Sono quattro domande molto impegnative, alle quali non tutti, in casa cristiana, rispondono alle stesso modo. Ecco, intanto, le mie risposte.

1. La prima domanda riguarda il patto di Dio con il popolo d'Israele. In realtà i patti, nell'Antico Testamento, sono tre: quello con l'umanità intera e con il creato, attraverso Noè, dalla cui discendenza nacque Abramo (Genesi 9, 8-17); quello attraverso Mosé, sul monte Sinai, con la consegna delle tavole della Legge (Esodo 20, 1-17); il «nuovo patto», con la Legge scritta «sui cuori» (e non più sulla pietra), di cui parla il profeta Geremia (31, 31-34). Dio si è dunque legato al popolo d'Israele in maniera stabile e definitiva; più volte si parla «patto eterno» o «perpetuo» (Isaia 55, 3; Geremia 50, 5; Ezechiele 16, 60; 37, 26; ecc.), che né Dio né Israele potranno dimenticare. Il rifiuto da parte della maggioranza del popolo ebraico di riconoscere in Gesù il Messia non ha comportato, da parte di Dio, il disconoscimento di Israele come suo popolo. L'apostolo Paolo lo dice espressamente: «... per quanto concerne l'elezione, [gli Ebrei] sono amati per via dei loro padri; perché i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento» (Romani 11, 28-29).
La «constatazione» del nostro lettore è dunque esatta: il patto di Dio con Israele «è tuttora valido». Non possono esserci dubbi al riguardo. Ma anche la Chiesa è «popolo eletto»: lo dichiara tutto il Nuovo Testamento. E allora? Ci sono forse due popoli eletti? No, ce n'è uno solo, ma articolato in due tronconi, in qualche modo paralleli, uno ebraico e uno cristiano. È certo una situazione anomala, ma non definitiva. Alla fine, dice l'apostolo Paolo (l'unico che abbia riflettuto a fondo su questa questione), l'unità del popolo di Dio sarà ricomposta, non nel senso di un assorbimento di Israele nella Chiesa, ma nel senso di un reciproco riconoscimento dei due soggetti come fratello (Israele) e sorella (la Chiesa). Non ci sarà perdita d'identità né di Israele né della Chiesa, ma ci sarà, per entrambi, un inveramento della identità di ciascuno. Accadrà, nel rapporto tra Chiesa e Israele, qualcosa di analogo (ma non di identico) a quello che succederà alle diverse confessioni cristiane che, insieme, costituiscono la Chiesa, ma oggi sono divise: anch'esse un giorno si riuniranno, senza perdere il profilo di ciascuna, ma incerandolo in una comunione più ampia nel segno della «unità nella diversità».

2. La seconda domanda è forse la più difficile. Siccome il patto di Dio con Israele è, come s'è detto, «tuttora valido», ne consegue, secondo il nostro lettore, che è tuttora valida anche la via ebraica alla salvezza (se così la si può chiamare), cioè quella che consiste nell'osservanza della Legge. Mi sembra però che si tratti di due questioni diverse: una cosa è magnificare la fedeltà di Dio che per nessuna ragione – neppure a motivo del rifiuto di Gesù come Messia – rescinde il suo patto con Israele, che quindi continua a essere popolo eletto; un'altra cosa è proporre la Legge come via di salvezza, non solo per gli ebrei, ma per tutti, come se la rivelazione di Dio si fosse fermata al dono del Decalogo e delle altre leggi, e non fosse andata oltre. Intanto si può mettere in discussione l'idea che nell'Antico Testamento la Legge sia veramente proposta come «via di salvezza», e ci si può chiedere se invece questa via non venga piuttosto individuata, anche in Israele, nella misericordia di Dio, che dura «fino alla millesima generazione » (Esodo 20, 6).
Ma a parte questa considerazione, che pure ha il suo peso, c'è il fatto che noi cristiani non conosciamo né possiamo indicare altra «via di salvezza» che quella di Gesù. In lui, nella sua vita e opera, nel suo insegnamento, nella sua morte e risurrezione la storia della salvezza ha raggiunto il suo culmine. Il nome stesso di Gesù, che significa Dio salva, lo rivela. I Samaritani dicono di lui che «è veramente il Salvatore del mondo», e non solo di Israele (Giovanni 4, 42). Tutto il Nuovo Testamento lo annuncia in ogni sua pagina. Non c'è dunque altra via di salvezza che lui. Questo non significa che Dio, nella sua libertà, non possa salvare persone che seguono altre vie, o che non ne seguono nessuna. Ma la via (e non solouna via) è lui, com'egli stesso dice: «Io sono la via» (Giovanni 14, 6).

3. La terza domanda riguarda il ruolo della Chiesa nella comunicazione della salvezza. Qui non c'entra più Israele, c'entrano invece i diversi modi di intendere e vivere questo ruolo nelle diverse confessioni cristiane, in particolare nel cattolicesimo e nel protestantesimo. Nel cattolicesimo il ruolo della Chiesa è costitutivo dell'evento salutare, nel senso che lei, attraverso i suoi ministri, diventa protagonista nella comunicazione della salvezza. Ego te absolvo («Io ti assolvo»), dice il sacerdote al penitente inginocchiato davanti a lui nel confessionale. Naturalmente ti assolvo in nome e per conto di Dio, ma intanto sono io che ti assolvo. L'ordinazione mi ha conferito il «potere» (potestas) di assolvere: la mia assoluzione è l'assoluzione di Dio. Così pure l'ordinazione mi ha conferito il potere di trasformare, nella celebrazione eucaristica, il pane in corpo, il vino in sangue di Cristo. Nel cattolicesimo, l'«io» di Dio e l'«io» della Chiesa coincidono. Nel protestantesimo invece non coincidono, anzi sono volutamente tenuti distinti. Il pastore non assolve il peccatore, gli annuncia l'assoluzione di Dio. Il potere del perdono non ce l'ha lui, ma la Parola di cui è ministro, cioè servo. Anche nel protestantesimo la Chiesa e i suoi ministri svolgono un compito centrale, ma si tratta di una centralità, diciamo così, «di servizio », subordinata a quella vera del Signore stesso, che agisce mediante il suo Spirito e la sua Parola, nella quale e con la quale tutto ci è dato.

4. La quarta domanda riguarda la concezione di Dio. Il nostro lettore afferma, correttamente, che ebrei e cristiani hanno «il solo Padre in comune », mentre non hanno in comune il Figlio e lo Spirito Santo. In questo quadro – egli si chiede – come si può «collocare teologicamente l'aspetto trinitario» di Dio, affermato dai cristiani e contestato dagli ebrei, dagli islamici e da molti altri? A prima vista non è possibile. Molti infatti pensano che monoteismo (comune a ebrei, cristiani, musulmani, e altri) e Trinità (creduta e confessata solo dai cristiani, e neppure da tutti) siano tra loro incompatibili: Dio – si sostiene – o è uno o è trino, ma non può essere al tempo stesso uno e trino. Dire che Dio è «uno in tre persone» non è forse una forma larvata di politeismo di ritorno? I cristiani, con la loro dottrina trinitaria, non hanno forse segretamente abbandonato il monoteismo, che è stata forse la maggiore conquista teologica dell'ebraismo?
In realtà, il monoteismo ebraico come è con tanta insistenza proclamato dall'Antico Testamento, non è affatto così uniforme come di solito si immagina. Un paio di esempi. Chi è il misterioso «uomo» col quale Giacobbe ha lottato per una notte intera (Genesi 32, 24.26) e che all'alba gli dice: «tu hai lottato con Dio» (v. 28)? E chi è quel «figlio» che è stato dato al popolo e che sarà chiamato «Dio potente» (Isaia 9, 5) ? E chi è quel «servo dell'Eterno» che «renderà giusti i molti» e per questo Dio «gli darà la sua parte tra i grandi» (Isaia 53, 11) ? E che cos'è quello Spirito potente convocato da Dio per soffiare sulle ossa secche di un popolo di morti, che quando lo Spirito entrò in essi «tornarono alla vita e si rizzarono in piedi» (Ezechiele 37, 10)? A ben guardare, la Trinità non solo è compatibile con il monoteismo, ma è la vita stessa di un Dio vivo, che non è un punto matematico, ma è in sé comunione e relazione.

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