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27 febbraio 2024

Il lamento di Giobbe


IL LIBRO DI GIOBBE (cap. 3)
 Il lamento di Giobbe

Un breve commento di Aldo Palladino

 

Il testo biblico

1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita. 2 E cominciò a parlare così: 3 «Perisca il giorno che io nacqui e la notte in cui si disse: "È stato concepito un maschio!" 4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Dio dall'alto, né splenda su di esso la luce! 5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti su di esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura! 6 Quella notte diventi preda di un buio cupo, 3 non venga contata tra i giorni dell'anno, non entri nel novero dei mesi! 7 Quella notte sia notte sterile e non vi si oda grido di gioia. 8 La maledicano quelli che maledicono i giorni [1] e sono esperti nell'evocare il drago [2]. 9 Si oscurino le stelle del suo crepuscolo, aspetti la luce e la luce non venga, e non contempli le palpebre dell'alba, 10 poiché non chiuse la porta del grembo che mi portava e non celò l'affanno agli occhi miei. 11 Perché non morii fin dal seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dal suo grembo? 12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare? 13 Ora giacerei tranqo, dormirei, e avrei così riposo 14 con i re e con i consiglieri della terra che si costruirono mausolei, 15 con i prìncipi che possedevano oro e che riempirono d'argento le loro case; 16 oppure, come l'aborto nascosto, non esisterei, sarei come i feti che non videro la luce. 17 Là cessano gli empi di tormentare gli altri, là riposano gli stanchi; 18 là i prigionieri hanno pace tutti insieme, senza udir voce d'aguzzino. 19 Piccoli e grandi sono là insieme, lo schiavo è libero dal suo padrone. 20 Perché dare la luce all'infelice, e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza? 21 Essi aspettano la morte che non viene, la ricercano più che i tesori nascosti. 22 Si rallegrerebbero fino a giubilarne, esulterebbero se trovassero una tomba. 23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura e che Dio ha stretto in un cerchio? 24 Io sospiro anche quando prendo il mio cibo, e i miei gemiti si spargono come acqua. 25 Non appena temo un male, esso mi colpisce; e quel che mi spaventa, mi piomba addosso. 26 Non trovo riposo, né tranquillità, né pace; il tormento è continuo!»

 
Tre osservazioni introduttive
Da una prima lettura del cap. 3 del libro di Giobbe emergono alcune osservazioni:
1.     La figura di Satana (l'avversario o l'accusatore) non è più menzionata. Satana esce di scena e non compare più fino alla fine del libro. Tuttavia, lascia nella vita di Giobbe la disarmonia, il seme del dubbio, la domanda sul senso della vita e l'invocazione della morte come soluzione alla grande sofferenza. Giobbe è un uomo depresso, solo nel suo dolore e abbandonato da tutti, sprofondato nelle tenebre, desideroso solo di morire.
2.    Nei capp. 1 e 2 Giobbe non ha peccato perché non ha rinnegato Dio e anche in questo cap. 3 notiamo che non ci sono parole rivolte contro Dio. Giobbe maledice il giorno della sua nascita ma mai maledice Dio, forse perché nutre ancora la speranza che il suo grido di invocazione della giustizia venga ascoltato. Giobbe vuole morire ma ha dentro di sé il desiderio forte che venga riconosciuto come innocente.
3.    Dopo sette giorni di silenzio, Giobbe è il primo a prendere la parola. I suoi amici continuano a tacere e anche Dio rimane in silenzio.
 
Il grido di Giobbe
     Questo è il titolo di un libro dello psicanalista Massimo Recalcati, che su sulla sventura di Giobbe ha scavato e scritto pagine interessanti. "Giobbe insistentemente chiede: qual è il senso del dolore che mi affligge? Di fronte alla lama della sofferenza la sua voce non si adagia remissiva nel silenzio, non sussurra, non dialoga con i suoi amici, non si ripiega in una contemplazione teoretica del dolore del mondo. La voce di Giobbe prende corpo solo nel grido" 
     Giobbe grida. Grida per la grandezza del suo dolore, indicibile, più forte di quello del Salmista che nel Salmo 130 grida dal profondo e invoca l'aiuto del Signore. Il suo grido è un lamento. Si lamenta e maledice il giorno della sua nascita e della notte del suo concepimento (v. 1-3) in un controcanto all'opera della buona e meravigliosa creazione di Dio che nel principio crea la luce e genera la vita (3-4). Giobbe, al contrario, invoca le tenebre della morte per porre fine alla vita di sofferenza.

 

I temi del lamento di Giobbe

Il primo tema è incentrato sull'opposizione "giorno-notte" e quindi "luce-tenebre" di portata cosmica ( vv. 3-10);

il secondo è quello di "vita e morte" di portata esistenziale che si espande nello Sheol (17-19);

il terzo è quello della sorte dell'uomo e della responsabilità di Dio (vv.20-26).  

     Giobbe contrappone l'ordine della creazione, in cui c'è precisione, distinzione, separazione tra tutti gli elementi creati, col non senso della vita e della morte, che nel suo divenire è costituito da sofferenza e dolore. Tutto è assurdo. Come conciliare la bellezza del creato con l'assurdità di un'esistenza che fa spazio al regno della morte? Che valore ha la vita quando essa è intrisa di male, pervasa da sofferenza e dolore indicibili? Sono queste le domande di Giobbe che gli fanno pronunciare cinque "perché?": 1. "Perché non morii fin dal seno di mia madre? 2. Perché non spirai appena uscito dal suo grembo? 3. Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare? Ora giacerei tranquillo, dormirei, e avrei così riposo" (3,11-13)… 4. Perché dare la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza? (v. 20)... 5. Perché dar vita a un uomo la cui vita è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio? (v. 23).                         Giobbe ripercorre il suo passato dalla notte del concepimento al giorno della sua nascita, dalla vita prenatale a quella neonatale e ricorda le cure le cure materne ricevute, il grembo che lo ha accolto, le ginocchia che lo hanno sostenuto e le mammelle che lo hanno nutrito. E pensa quale riposo avrebbe trovato se non fosse mai nato o se fosse morto appena nato.                                                                               Giobbe pensa alla sua vita come ad una schiavitù dominata da una divinità che assume le forme di un padrone (v. 19), di un aguzzino (v. 18), di un empio (v. 17) e alla morte come liberazione da quello stato servile. Dio, che un tempo era riparo e protezione (1,10) ora è per lui come un cerchio, una prigione in cui la via è oscura, nascosta.

L'integrità di Giobbe, il credente "integro e retto" (1,1) è fortemente scossa, ma la nuova condizione di isolamento, il nuovo stato in cui viene a trovarsi apre la via alla ricerca di un senso. Ed è proprio questa ricerca che carica Giobbe di una nuova energia esistenziale che lo accompagnerà nel suo cammino per cercare le risposte ai suoi "perché?".

                                                 Aldo Palladino

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