Translate

24 marzo 2010

Il più antico inno cristiano


Filippesi 2, 5-11

 
di Aldo Palladino

 

Il testo biblico

5 Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 6 il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 7 ma spogliò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 8 trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 9 Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 10 affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 11 e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.

 

***

Contesto

La lettera che Paolo scrive è rivolta ad una comunità costituita da giudeo-cristiani. Questo si deduce da 3, 2-3, in cui Paolo esorta a guardarsi "da quelli che si fanno mutilare", da quelli che esaltano la circoncisione della carne, secondo la legge mosaica.

La comunità di Filippi viene ricordata:

-         per la sua fedeltà a Paolo in occasione degli aiuti finanziari spediti più volte a Tessalonica e a Corinto (4,15-16, 2 Cor. 11,9);

-         per la sua generosità nella colletta fatta tra le chiese della Macedonia (2 Cor. 8,1-5);

-         per l'aiuto a Paolo attraverso doni fatti quando era in prigione e con l'invio di Epafrodito perché lo assistesse e gli stesse vicino (2,25);

-         per il suo impegno in campo missionario (1,3.5).

Ma accanto a queste note positive, occorre segnalare quelle negative: nella comunità di Filippi i rapporti fraterni erano lacerati da incomprensioni, da rivalità e divisioni, come testimonia l'appello di Paolo all'umiltà e alla concordia (2,2 ss) e la sua esortazione a due donne della comunità, Evodia e Sintiche, di andare d'accordo (4,2-3).

L'intervento di Paolo voleva sopperire ad un deficit morale notevole. Quale cura era adatta a quella comunità per tirarla fuori da quella situazione? Oggi la psicologia, la sociologia, la pedagogia, la cultura umanistica in generale forniscono gli strumenti per capire meglio i meccanismi e le dinamiche che sono alla base delle disfunzioni di un gruppo, di un corpo, qual è la chiesa, o di tutti i conflitti interpersonali. Al tempo stesso, quelle discipline offrono le soluzioni per superare le più svariate conflittualità e per fronteggiare ogni principio di disgregazione.

Ma in quell'epoca, in assenza di strumenti di analisi appropriati, quale terapia ha somministrato l'apostolo Paolo ai Filippesi?

 

Inno cristologico

Scrive Paolo Ricca: "...Paolo, in una situazione di evidente crisi etica, non fa la morale ai Filippesi, non predica la legge, ma intona un inno a Cristo e invita i Filippesi a cantarlo con lui... Non è la morale che guarisce l'immoralità, ma la fede"(©). Infatti, l'apostolo Paolo ricorda ai Filippesi quest'inno per orientare la loro vita e la loro fede proponendo alla loro attenzione l'esempio più grande che Dio stesso ha dato nel suo Figlio, Gesù Cristo.

Non sappiamo quando siano nate le belle parole che abbiamo letto nel brano biblico oggetto della presente riflessione. Forse prima di Paolo, o anche prima di Gesù Cristo. Probabilmente erano le parole di un inno che la tradizione cristiana cantava per raccontare un fatto che ha dell'incredibile nella storia dell'uomo, anzi il fatto unico ed irripetibile che è all'origine della fede cristiana: la decisione di Dio di incontrare l'umanità nella persona di Gesù Cristo (incarnazione). Dio riveste la sua divinità di umanità. Non mette da parte la sua divinità, non la perde, ma la completa di quell'elemento, l'umanità, che era necessaria perché l'uomo potesse vedere Dio.

L'Antico Testamento, attraverso molti episodi, ci ha trasmesso l'immagine di un Dio invisibile a tal punto che chi avesse osato guardarlo – ammesso che fosse stato possibile – sarebbe morto. Ricordiamo che Mosè, nell'episodio del pruno ardente che non si consumava, ebbe paura di guardare Dio (Es. 3,6). E il profeta Elia si coprì la faccia mentre l'Eterno passava sul monte Oreb (1 Re 19, 11-13).

Il Nuovo Testamento ci pone davanti al Dio visibile, vicino, che si pone accanto a tutti e a ciascuno, che possiamo vedere, udire e toccare, che in Gesù Cristo diventa l'Emmanuele, vale a dire "Dio con noi".

A Filippo, che chiese: "Mostraci il Padre", Gesù rispose: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv. 14,9). Divinità e umanità si incontrano in Gesù Cristo. Egli è vero Dio e vero uomo, come affermò il Concilio di Calcedonia (451 d.C.), sulla scia delle formulazioni del Concilio di Nicea (325 d.C.) e di Costantinopoli (381 d.C.).

 

Il valore dell'inno cristologico

Testo prepaoloinico o prodotto dell'attività teologica e poetica dell'apostolo Paolo, questo brano è stato sottoposto ad un esame esegetico e storico molto approfondito. In particolare, il v. 6 ha attirato l'attenzione degli studiosi, che hanno cercato di tradurre il sostantivo forma (morphê): essenza, condizione, immagine, gloria, modo di esistere. Inoltre, l'espressione "non considerò rapina (harpagmos) essere uguale a Dio" è stata interpretata in due modi:

a)      qualcosa da rapire (res rapienda, in senso attivo);

b)      qualcosa rapita (res rapta, in senso passivo).

La prima interpretazione pone Gesù come Colui che viene tentato, come Adamo nel giardino dell'Eden, ma resiste alla tentazione di farsi uguale a Dio.

La seconda interpretazione intende dire che Gesù  non ha considerato come un bene rapito la sua uguaglianza a Dio. Anzi, non sfruttò a suo vantaggio l'essere uguale a Dio. Ma, forse, potrebbe  anche significare che non volle essere trattato come se fosse Dio.

Per comprendere la via interpretativa più corretta ci aiuta il contesto del brano.

Dobbiamo, dunque, partire dal fatto che l'esortazione di Paolo intende agganciare la vita dei Filippesi per farli riflettere sul significato dell'inno: "Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù" (5).

Di quale sentimento avevano bisogno i Filippesi?

È quello racchiuso nell'attività di Gesù Cristo, che viene stigmatizzata dal duplice movimento di abbassamento (6-8) e innalzamento (9-11).

I Filippesi avevano bisogno di andare alla sorgente della fede per imparare a vivere. Dovevano tornare al Maestro della fede e della vita, che per vivere tra gli uomini e con gli uomini si "converte" all'umanità operando su se stesso una trasformazione che è una vera rivoluzione. Dio mette in gioco se stesso ed entra in azione nel mondo in un modo davvero originale.

Sempre Paolo Ricca (op. cit.), con riferimento a che cosa significhi veramente essere Dio, scrive: "Significa essere il primo? Si, ma anche essere l'ultimo. Significa essere Signore? Si, ma anche essere schiavo. Significa essere l'Altissimo? Si, ma anche il Bassissimo. Significa essere esaltato? Si, ma anche abbassato. Significa essere adorato? Si, ma anche flagellato. Significa essere divino? Si, ma anche umano".  

In questo ricordo del movimento verso il basso sta l'insegnamento di Paolo ai Filippesi, che hanno bisogno di rimuovere il senso di autosufficienza e di orgoglio e di riscoprire che la fede non fa salire in alto, ma ci fa scendere dal nostro piedistallo per continuare a scendere con umiltà verso quelle zone dell'umanità dove a nessuno piacerebbe vivere.

L'ascesi e la mistica cristiana incoraggiano il distacco dal mondo, la solitudine, il silenzio, la preghiera e promuovono il movimento verso l'alto, nella ricerca di Dio. Ma Dio, in Cristo Gesù, nel nostro brano è in basso, nelle zone più disumanizzate di questo mondo, tra gli esclusi, gli emarginati, i poveri, i sofferenti, i malati, i carcerati, gli stranieri affamati, tra tutti quelli che invocano aiuto, salvezza, pace, giustizia, verità. Dunque, se vogliamo incontrare Dio, dobbiamo incontrarlo nella persona di Cristo Gesù, che ha condiviso la condizione umana fino alla degradazione più umiliante della croce.

La lezione che apprendiamo da quest'inno è che Gesù Cristo traccia il nostro cammino sia indicandoci la direzione sia insegnandoci come camminare.

 

Per ciò che concerne l'abbassamento (6-8), il testo afferma, infatti, che Egli:

1)      "spogliò se stesso", nel senso che si svuotò (in greco ekenosen), mise da parte il suo status d'origine, privandosi del suo spendore e dei suoi privilegi (gloria, identità e diritti divini);

2)      "prendendo forma di servo" (in greco doulos, schiavo), abbandonando volontariamente la condizione di Signore e assumendo quella sociale di schiavo, vale a dire di uno che agli occhi del mondo non conta nulla; la salvezza dell'umanità inaugurata da Gesù non passa attraverso il potere, come l'uomo pretenderebbe, ma attraverso il servizio. 

3)      "divenendo simile agli uomini", perché in ogni cosa Gesù ha manifestato di essere uomo, dalla sua nascita alla sua morte, senza mai peccare (Ebr. 4,15);

4)      "umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce". La via dell'umiliazione, nell'ambito di quel movimento di abbassamento, sta nell'ubbidienza di Gesù a Dio Padre, del quale accetta liberamente e volontariamente il progetto di salvezza dell'intera umanità per realizzarlo fino alla morte, alla morte sulla croce.

      I Filippesi impareranno dall'ubbidienza di Gesù a diventare anch'essi ubbidienti (v. 12).

 

Per ciò che concerne il suo innalzamento (9-11), l'inno cristologico mette in evidenza che ciò avviene con la dichiarazione che a Gesù Dio dà "il nome che è al di sopra di ogni nome" (11). Il nome è quello di "Signore" (Kyrios). E questo è sconvolgente per la mentalità del tempo, perché Signore è l'appellativo riservato a Dio. Dunque, a Gesù viene dato il nome di Dio.

 

Nel Nuovo Testamento, lo schema abbassamento-innalzamento si presenta come una parènesi rivolta prima ai diretti destinatari e poi a tutti i lettori.

Lc. 14,11: "Poiché chiunque si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato" (ved. anche 18, 14). Questa espressione la ritroviamo anche in Mt. 23,12.

Mc. 10, 43-45: " Chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti".

Gc. 4, 10 dice: " Umiliatevi davanti al Signore, ed egli vi innalzerà".

1 Pt. 5, 6: " Umiliatevi dunque sotto la potente sua mano, affinché egli vi innalzi a suo tempo".

I Filippesi, dopo il canto dell'inno, come hanno reagito? Forse hanno risposto come facciamo anche noi, oggi, quando cantiamo inni di lode e di adorazione a Dio, quando cantiamo di essere disposti a servire, ad amare, ad accogliere...

L'inno cristologico di Filippesi non è un imperativo, ma è una chiamata alla libertà di decidere cosa vogliamo essere nei confronti di Dio e verso gli altri che ci stanno intorno.

È un invito ad abbandonare i risentimenti per vivere i sentimenti di fraternità e di grazia con la stessa forza del sentimento di Cristo Gesù.

Forse, dopo tutte le strade che finora abbiamo provato con i nostri miseri mezzi, questa è l'unica via da percorrere, seguendo il divino Maestro.

 

                                    Aldo Palladino

 

  



(©) Paolo Ricca. Come in cielo, così in terra. Itinerari biblici. Claudiana – Torino, (pag. 98).

2 commenti:

Unknown ha detto...

Grazie caro fratello in Cristo,questo inno cristologico mi ha incoraggiato, Chiedo a Dio di forgiarmi per fare la sua volontà in ogni circostanza. Gloria a Dio
Che il Signore ti benedica

Alfredo Campi studente. ha detto...


Gent. mo studioso Aldo Palladino,
mi scuso ma io sono Alfredo Campi avrei una domanda da porle.
Qual è il significato esatto del termine prepaolino riferito all'inno cristologico di Fil.2?
Un esegeta che conosco sostiene che questo inno deve la sua nascita alle prime comunità cristiane formatesi dopo la morte di Cristo. Se le prime comunità erano a carattere giudaico-cristiane come si poteva conciliare il messaggio cristiano della Croce con gli insegnamenti della Torah? E altra domanda se
l'inno cristologico si potrebbe definire prepaolino, sappiamo che gli anni che intercorrono tra la morte di Gesù e l'avvio dell'opera missionaria di Paolo sono più o meno una ventina, quali possono essere le comunita' cristiane che praticavano questo inno? Non certo quella di Antiochia perché
questa comunità è stata fondata da Paolo e Barnaba. Non vedo quindi appropriato il termine "prepaolino".Sono molto d'accordo con il concetto che lei ha esposto riferendo che esso è il frutto dell'attività teologica e poetica di Paolo e dei suoi collaboratori. Se gentilmente mi vuole rispondere lo può fare all'email: alfredo.campi13@gmail.com grazie.