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21 maggio 2007

Vangelo di Marco 12, 13-17 Apparteniamo a Dio


di Aldo Palladino
(riferimenti sinottici Matteo 22, 15-22; Luca 20, 20-26)
Altre letture: Genesi 1,27; 2 Corinzi 3:18; Colossesi 3,10
13 Gli mandarono alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo con una domanda. 14 Essi andarono da lui e gli dissero: «Maestro, noi sappiamo che tu sei sincero, e che non hai riguardi per nessuno, perché non badi all'apparenza delle persone, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? Dobbiamo darlo o non darlo?» 15 Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché mi tentate? Portatemi un denaro, ché io lo veda». 16 Essi glielo portarono ed egli disse loro: «Di chi è questa effigie e questa iscrizione?» Essi gli dissero: «Di Cesare». 17 Allora Gesù disse loro: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Ed essi si meravigliarono di lui .

Domanda-trabocchetto

Gesù era circondato da persone o gruppi di persone che gli ponevano delle domande. Alcuni le facevano in buona fede, con la sincera intenzione di avere risposte per la loro vita. Altri, invece, miravano a mettere Gesù alla prova o, come dice il nostro testo, per coglierlo in fallo.
C'è qui una domanda-trabocchetto che nasceva dalla necessità di natura politica, per gli erodiani, e dottrinale, per i farisei, con lo scopo d'accusare Gesù e consegnarlo ai Romani.
"È lecito pagare il tributo a Cesare?"
È una domanda provocatoria, perché tutti sapevano che era dovere d'ogni cittadino pagare il tributo [kenson, dal latino census, una tassa annuale pro-capite ] all'imperatore romano. Era chiamata capitazione, il tributum capitis, che si applicava a tutti, senza distinzione d'età o di condizione di salute.
La riscossione di dazi, gabelle, tributi, era effettuata con metodi feroci. I funzionari del fisco andavano dappertutto e controllavano i campi, contavano alberi da frutto, vigne, capi di bestiame, registravano il numero delle persone, padri, madri, figli, servi (Lattanzio ne fa una descrizione nella sua opera De mortibus persecutorum 23,1 ss.) E il censimento di Augusto (Luca 2,1) serviva per avere un capillare controllo anche ai fini fiscali. I Giudei lo definivano "il dissanguamento del paese".
La domanda è provocatoria anche per il momento e il luogo in cui viene rivolta a Gesù.
Il luogo è nella città di Gerusalemme, davanti al tempio, durante la festa della Pasqua, in un'atmosfera di rievocazione della libertà del popolo, che è aspirazione alla libertà, alla rivolta.
La domanda è sottile e capziosa . Se Gesù risponderà affermativamente, passerà per un vile collaborazionista dei Romani, per traditore del popolo e della Torà; se risponderà negativamente, lo denunzieranno come ribelle alle leggi, come sobillatore del popolo contro il potere romano. L'evangelista Luca afferma, infatti, che volevano "coglierlo in fallo su una sua parola" (20,20). Il "si" o il "no" gli sarebbe stato fatale.
La moneta e la sua effigie
Gesù chiede di visionare una moneta, un denaro, per osservarne l'effigie (eikon, immagine] e l'iscrizione. Su una faccia della moneta c'è l'effigie di Tiberio Cesare (regnante dal 14 al 37 d.C.], raffigurato con una corona d'alloro sulla testa, segno della dignità divina, e l'iscrizione "Tiberius Caesar Augustus, figlio del divino Augusto". Sull'altra faccia c'è la scritta Pontefix Maximus, Pontefice Massimo, che è l'esaltazione del culto dell'imperatore e della sua divinizzazione.
La risposta di Gesù
"Di chi è questa effigie e questa iscrizione?", chiede Gesù. "Di Cesare", gli rispondono. E Gesù dà la sua risposta:
"Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio".
Per molto tempo questa frase è entrata nel gergo popolare e erroneamente citata con "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Quest'ultimo modo di dire è stato inteso come una sorta di equilibrio, di spartizione dell'ubbidienza a Dio e a Cesare, una sorta di coabitazione o di convivenza tra trono e altare. Vale dire "Cesare e Dio". In alcuni periodi della storia "Cesare e Dio" è diventato "Dio contro Cesare" o "Dio senza Cesare". Oggi, invece, si parla di "Cesare senza Dio", perché c'è il tentativo di liquidare Dio dall'orizzonte umano e tutte le religioni che lo rappresentano, ritenute responsabili delle guerre dei nostri tempi.
Ma cosa intendeva dire esattamente Gesù?
La parola chiave per comprendere il senso della risposta di Gesù è effigie o immagine. E immagine è il termine chiave anche nel racconto della creazione: "Dio creò l'uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio" (Genesi 1,27).
Se l'immagine di Cesare è incisa sulla moneta, ciò significa che la moneta appartiene a Cesare. E l'iscrizione che divinizza l'imperatore è blasfema, perché un uomo non può farsi adorare come Dio. Gesù conosceva bene la Torà e tutta la Scrittura è un divieto a farsi immagini o sculture (Esodo 20,4; Deuteronomio 4, 16.23.25; 5,8) che materializzano ciò che è spirituale. Dunque, quella moneta bisogna restituirgliela per vari motivi. Ma l'affermazione di Gesù è la premessa per qualcosa di più grande e più profondo, perché l'insegnamento che intende dare ai presenti e a tutti noi è che l'essere umano, in cui c'è l'immagine di Dio, deve essere restituito a Dio. In effetti, l'uomo appartiene a Dio, perché Dio ha creato l'uomo.
Ma chi vive con la consapevolezza di questa appartenenza a Dio?
ll problema dell'uomo contemporaneo è di essere alla mercé dei moderni Cesari, che invadono la vita di tutti. Essi sono individuabili nel potere economico, politico, tecnologico, militare e persino in un certo potere religioso.
Ognuno di noi può esaminare se stesso per capire a quale Cesare sta obbedendo, a cominciare dal nostro "io". Questi Cesari tentano di coniarci e plasmarci a loro immagine e somiglianza con strategie, schemi, tempi e modi che appartengono ad un mondo che ha rimosso Dio dal proprio campo d'azione.
La conseguenza è una vita senza riferimenti e nella piena libertà di fare ciò che si vuole, senza comprendere ciò che è bene e ciò che è male, o addirittura chiamando bene il male, come ai tempi del profeta Isaia, che disse: "Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro!" (Isaia 5:20).
La conseguenza è che la nostra fede è sempre in tensione, sempre messa alla prova, perché si muove tra la chiamata a vivere nella gioia dell'ubbidienza al Signore e l'attrazione esercitata dal potere di seduzione che altri esercitano su di noi, distraendoci dal compito che ci è stato assegnato.
Dunque, Gesù attribuisce grande importanza alla seconda parte della sua risposta: "…rendete a Dio quel che è di Dio". Non gli era stato richiesto di farci entrare Dio nel dibattito, ma Gesù coglie ogni occasione per affermare il piano di Dio per l'uomo e ciò che l'uomo deve essere o fare per piacere a Dio. Non gli interessa il potere o la relazione col potere. Nel discorso della montagna aveva detto:" Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona" (Matteo 6,24), perché tutti, anche Cesare, dovranno rendere conto a Dio.
Dunque, Gesù ci richiama ad una scelta radicale nella nostra vita. La nostra umanità porta in sé i segni della debolezza e del peccato, ma Gesù con la sua vita, col suo cammino, con la sua parola, ci accompagna e solidarizza con noi per farci superare i momenti difficili - che non mancano mai - per assumere su di sé la nostra condizione di peccatori. Tuttavia, egli desidera da noi un impegno a precise scelte di campo per vivere come figli di Dio, che gli appartengono per sempre, perché acquistati col suo prezioso sangue, versato alla croce (1 Pietro 1,19).
Aldo Palladino

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