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16 aprile 2007


Luca 15, 11-32
La parabola del figlio prodigo
 o 
                                      del Padre misericordioso
 
                                                                                                                                                                  Riflessione di Aldo Palladino
 
Il testo biblico di Luca 15,11-32
11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane di loro disse al padre: "Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta". Ed egli divise fra loro i beni. 13 Di lì a poco, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano, e vi sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente. 14 Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una gran carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali. 16 Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava. 17 Allora, rientrato in sé, disse: "Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi". 20 Egli dunque si alzò e tornò da suo padre; ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò e ribaciò. 21 E il figlio gli disse: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". 22 Ma il padre disse ai suoi servi: "Presto, portate qui la veste più bella, e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; 23 portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato". E si misero a fare gran festa. 25 Or il figlio maggiore si trovava nei campi, e mentre tornava, come fu vicino a casa, udì la musica e le danze. 26 Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa succedesse. 27 Quello gli disse: "È tornato tuo fratello e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo". 28 Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. 29 Ma egli rispose al padre: "Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; 30 ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato". 31 Il padre gli disse: "Figliolo, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato"».
 
 
La situazione
E' il quadro di una famiglia con papà, due figli maschi, il minore (vv. 12-24) e il maggiore (vv. 25-32), dei servi, un'azienda zootecnica ben avviata, terreni, pascoli. C'era molto da lavorare e tutti avevano il proprio compito, un certo grado di responsabilità.
Insomma, un'azienda familiare con intensa attività che creava ricchezza e benessere per tutti.
Eppure, un giorno il più giovane dei due figli va da suo padre e, senza giustificare il suo atteggiamento, gli chiede: "Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta" (v. 12).
Secondo la legge ebraica (Dt. 21, 17) al primogenito spetta la quota di 2/3 dell'eredità e al secondo figlio 1/3. Inoltre, la spartizione dell'eredità avviene, sempre secondo la legge, alla morte del proprietario, in questo caso del padre.
Quindi ci troviamo qui di fronte ad una richiesta strana del giovane, direi offensiva nei confronti del padre, perché il figlio con questa richiesta è come se anticipasse la morte del genitore. E' come se il figlio dicesse: "Tu per me sei come morto, quindi voglio la mia parte d'eredità".   
Eredità nel testo greco ha il significato di vita, sostanza.
Il figlio minore chiede al padre l'eredità come se fosse una cosa che gli spetta di diritto, ma sbaglia perché pretende come suo ciò che è un dono (la vita).

La risposta del Padre
Il Padre della parabola è un personaggio fuori del comune. Ciò che stupisce e che sbalordisce è il suo comportamento, perché:
1) non segue la tradizione né le prescrizioni della Legge ebraica che, in Dt. 21, 18-21, autorizza il padre del figlio disubbidiente o ribelle a consegnarlo agli anziani della città che lo avrebbero condannato alla lapidazione;
2) non segue né imita l'atteggiamento tradizionale dei Farisei, che avrebbero rifiutato la richiesta del giovane;
3) non si comporta con buon senso e giustizia (fa festa al figlio prodigo e disapprova il figlio maggiore).
Egli non fa niente di tutto questo. Al contrario, "egli divise fra loro i beni" – v. 12) e anticipa la spartizione dell'eredità prima della sua morte: un comportamento anticonformista e antigerarchico. È un Padre che comprende le ragioni dell'essere del figlio: anziché criticarle e di dissuaderlo dal proposito di andare via, o di chiedere quali motivi lo costringessero a tanto, lo lascia libero nelle sue scelte di vita, lo rispetta fino in fondo, forse ne intuisce i motivi, ma non rinfaccia nulla.

Il figlio minore
La partenza
Il figlio minore parte "per un paese lontano" (v. 13).
Il testo biblico non riporta il motivo per cui il figlio minore chiede al padre la sua parte d'eredità e interrompe la relazione con lui e suo fratello. Non è mai detto che vuole la sua libertà, fare le sue esperienze e godersi la vita con nuove avventure. Anche il padre non accenna a dichiarare le ragioni della partenza di quel figlio. L'unico commento del padre che troviamo nel testo è che  suo figlio "era perduto" (v.32).  
In effetti, il figlio minore se ne va lontano, lontano da se stesso, dal suo cuore profondo, e si perde. Perde tutto. Ma parte lontano anche da Dio. In questa vita senza riferimenti spirituali, vive la sua carestia interiore ed esteriore (v. 14). Vive la sua vita non per visitare altri paesi, accrescere la sua cultura o per avviare una attività in proprio ma solo per divertirsi e dissipare la sua ricchezza in modo insano con prostitute, come dirà il fratello maggiore (v.32). 
 
Il ritorno  
Al v. 17, però, egli "rientrò in se stesso…". Si rivede, scopre la verità su se stesso, storna verso il suo cuore, per entrare nel silenzio interiore dove, scavando nel campo per trovare il tesoro (Lc. 6,48), scopre il disordine interiore e l'amore del Padre.
Noi tutti ritorniamo da lontano, come da un esilio e torniamo a Dio.
Noi tutti, come quel figliuol prodigo, possiamo dire: "Ho peccato" (v. 18).  
 
Da questo momento egli cambia direzione nella sua vita. C'è la svolta.
Inizia il cammino del ritorno alla casa del Padre. Non sa ancora cosa gli aspetterà. Giudizio, umiliazione? No! Egli si ritrova nelle braccia del Padre, che stava da tempo aspettando il suo ritorno.
"Questo figlio era morto ed è tornato alla vita" ( v.24).
Un anello, dei calzari e una veste nuova. La festa e le danze. E' tutto per lui.
 
Si può parlare di pentimento?
Il pentimento del figliuol prodigo è strumentale. Esso rientra nel concetto di scambio, cioè un concetto retributivo dei rapporti. Infatti chiede di trattarlo come un salariato o come uno dei suoi servi.
 
Concetto o rapporto retributivo: PECCATO – PENTIMENTO - PERDONO
 
Ma Dio non conosce la "giustizia retributiva", perché Dio accoglie l'uomo, il suo figliuolo, non perché si è comportato bene, ma perché Egli lo ama.
Lo vediamo bene nel comportamento del Padre, che vede arrivare il figlio da lontano e, indipendentemente da ciò che il figlio gli dirà o prima ancora che questi gli confessi il peccato, "ne ebbe compassione"    (v.20).
 
Così la sequenza diventa: PECCATO - PERDONO – PENTIMENTO secondo il pensiero del Padre, che ama per primo (1 Giov. 4, 19). Questa è la grandezza di Dio.
Anche per la conversione è così: noi possiamo chiedere a Dio di convertirci.
E la sequenza diventa: PECCATO – PERDONO – CONVERSIONE.

     Molti sono del parere che ciò che spinge questo giovane a far ritorno alla casa di suo padre non è il pentimento intervenuto nella sua vita ma la fame. Non è l'amore per il Padre né il dispiacere per come si era allontanato dalla sua famiglia che motivano il suo ritorno, ma la sua paura di morire di fame, di non avere quello che persino i servi di suo padre avevano. Non è il pentimento il suo primo pensiero, ma il bisogno di riempirsi lo stomaco. E se egli confessa: "Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi" (v. 18), si tratta di un mero calcolo, di una confessione molto interessata, di un pseudo-pentimento che nasce non dal cuore e da una vera conversione ma dalla necessità di potersi assicurare una vita anche come salariato.  

Il figlio maggiore
-    non conosce il cuore del Padre nonostante vivesse con Lui e stesse in casa con Lui. Infatti, disse: "Da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando" (v. 29);
-    è geloso del dono fatto dal Padre, perché ritiene che quel dono sia stato dato per meriti inesistenti, avendo anche lui una concezione di scambio (retributiva) dell'amore del Padre;
-    vive in casa come un servo (spesso chi lascia la casa manifesta il peccato, chi resta lo nasconde). Sono due modi di rimanere nel peccato;
-    manifesta ingratitudine di fronte alle ricchezze a sua disposizione;
-    crede di aver servito fedelmente il Padre (presenta la sua fedeltà non quella del padre).
Il figlio maggiore esprime nei suoi atteggiamenti un'aperta rivolta contro il comportamento del Padre.
Il vero problema di questo figlio è che crede che il suo comportamento di figlio non faccia una piega. Egli si considera perfetto, giusto, lavoratore, serio e parsimonioso (v.29). Dunque, pensa di essere senza peccato. Per questo può giudicare tutti gli altri. E' un giovane pieno di sé ed non riesce a vivere   nella libertà di figlio. Di fronte alle situazioni della vita non è capace di mettersi in discussione; sa solo irrigidirsi. E rimane solo, senza portare del frutto, come il chicco di grano che non muore (Gv. 12,24).
Presenta un'apparenza di perfezione che nasconde una paura di vivere, una falsa sottomissione, un rifiuto della differenza dell'altro. E' cieco e crede di vedere
Ambedue i figli non vedono l'amore del padre, si sentono come schiavi salariati in casa propria.        
        
I due figli hanno due atteggiamenti diversi, ma in comune hanno il fatto di non conoscere veramente il Padre.
Il primo è sicuro di cosa fare: partire da casa per vivere una vita autonoma.
Il secondo ha la certezza di vivere una vita giusta: fare il suo dovere.
Ma nessuno dei due ha realmente incontrato il Padre, né quello che parte né quello che rimane accanto a lui. Sono ambedue come ciechi, perché il loro cuore non è illuminato dall'amore.
L'evangelista Giovanni (11, 10) dice:" …ma se uno cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui".
Così uno cade nel disordine (nel peccato e nell'immoralità), l'altro nell'eccesso di ordine (perfezione e giustizia personale, come dire: credere di essere senza peccato).

Il Padre
L'atteggiamento del Padre spinge a una riflessione sul nostro   comportamento. La lezione di libertà, rispetto, fiducia, disponibilità, perdono, prontezza ad aiutare e ad accogliere, è veramente grande e occorre farne tesoro.
Il Padre rivela la grandezza del suo cuore per i suoi due figli.
Egli fa festa per il figlio perduto e ritrovato, ma ama anche il figlio maggiore, cui va incontro per pregarlo a partecipare alla festa del fratello ritrovato, quando si irrigidisce nel suo comportamento (v. 28).
E' un Padre che va verso i suoi figli e non li abbandona alla loro solitudine.
           
                                                                                                          Aldo Palladino
 
 
N.B. Alcune riflessioni sono state tratte dal libro di Simone Pacot: "L'evangelizzazione del profondo"; Queriniana, 1998. Altre da articoli del Settimanale "Riforma" della Chiesa Valdese. Altre ancora sono contributi personali.