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05 luglio 2009

L'UOMO NON VIVE DI SOLO PANE…

Deut. 8, 1-6; Lev. 19, 18b; Luca 10, 25-28


Predicazione di Aldo Palladino



Chiesa Evangelica Valdese

C.so Vittorio Emanuele II, 23

Torino


I testi biblici


Deuteronomio 8,1-6

1 Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il SIGNORE giurò di dare ai vostri padri. 2 Ricòrdati di tutto il cammino che il SIGNORE, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. 3 Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provar la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del SIGNORE. 4 Il tuo vestito non ti si è logorato addosso, e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni. 5 Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge suo figlio, così il SIGNORE, il tuo Dio, corregge te.

6 Osserva i comandamenti del SIGNORE tuo Dio; cammina nelle sue vie e temilo.


Levitico 19, 18b

Ama il prossimo tuo come te stesso. Io sono il Signore.


Luca 10,25-28

25 Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova, e gli disse: «Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna?» 26 Gesù gli disse: «Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?» 27 Egli rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». 28 Gesù gli disse: «Hai risposto esattamente; fa' questo, e vivrai».

 

Crisi di valori
Questi brani della Scrittura, in un tempo di crisi globale come quello che stiamo vivendo, ci aiutano a capire dove nascono i mali di questa società e a riflettere sullo stato del nostro rapporto con Dio e con il prossimo.

L'attuale crisi è la crisi della società dei consumi, che ha alla base del suo funzionamento la regola di consumare sempre di più per mantenere sempre più alti i livelli di produzione. Gli esperti però ci dicono che la produttività non si può espandere all'infinito e che era prevedibile che il sistema andasse in blocco. 

Ma la crisi coinvolge l'etica e la morale, i modelli di comportamento e gli stili di vita che oggi più che mai sono improntati al solo soddisfacimento di piaceri individuali, egoistici. Le bolle finanziarie di Wall Street e il castello di carta del mercato immobiliare americano, oltre a tutti i meccanismi distorti del mercato economico e finanziario, ci insegnano che sull'altare di Mammona, del dio denaro, è cresciuto  quell'atteggiamento comportamentale fondato sul cinismo e sul disprezzo dell'uomo.

Sorelle e fratelli, la crisi è ad un livello più profondo, cioè a livello spirituale, e viene da molto lontano.

Da quando, alla fine dell'Ottocento, Nietzsche ha dichiarato che "Dio è morto", molti hanno realmente fatto morire Dio nella loro vita ed hanno sostituito a Dio il proprio Io, il Sé, consacrato nella volontà di potenza, di dominio, di successo, di carriera, di autonomia e di protagonismo.

Certamente è legittimo per tutti cercare di migliorare la propria posizione economica e sociale, ma non è giusto che questo avvenga a scapito di altri o in modo fraudolento e illegale attraverso un collaudato sistema di corruzione, o – se siamo credenti – dimenticando cosa il Signore ci ha comandato di fare.

Oggi Dio è uscito dalla vita di molte persone, Dio è morto. Ed è rimasto l'Io. In tal modo, l'uomo fa ciò che vuole secondo un modello antropologico disegnato dal marketing e dalla pubblicità che mette al centro il corpo, la salute, la cura, la bellezza, cioè l'apparire, l'immagine, l'esteriorità, mentre la salute dello spirito è passato in second'ordine. Mi vengono in mente le parole che il Signore disse a Samuele: "Il  Signore non bada a ciò che colpisce lo sguardo dell'uomo: l'uomo guarda all'apparenza, ma il Signore guarda al cuore" (1 Sam. 16, 7).

Ma la tragedia della società in cui viviamo è che c'è il tentativo di far morire anche l'amore per il prossimo. Per millenni la morale ebraica e cristiana si è retta sui due pilastri rappresentati dal doppio comandamento: Ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Aggredito il primo pilastro, l'attacco viene oggi sferrato contro il secondo e l'amore per il prossimo mostra segni di logoramento. Oggi, questi due comandamenti rischiano di rimanere parole vuote, perché non si sa più di che cosa si parla.

Chi è Dio per noi, per te e per me? E che cosa significa amare Dio? E chi è il prossimo? E cosa significa amare il prossimo tuo come te stesso? E potremmo continuare a parlare di tante altre parole (perdono, pace, comunione, libertà, ecc.…), che sappiamo essere dei valori, ma che rischiano di restare soltanto parole, dei contenitori vuoti, che non si trasformano nella realtà di ogni giorno in esperienza. Parole senza gesti. Concetti astratti non radicati nella vita pratica delle persone.

Il "prossimo", che nel Levitico è rèa' e nel greco del Vangelo di Luca è plesìos, significa: l'altro che ti sta vicino. Dunque, un prossimo non astratto, ma quello che ti sta vicino, accanto, di fronte, che tu puoi toccare e guardare negli occhi e provare verso di lui sentimenti ed emozioni.

L'odierna società propina e reclamizza il rapporto mediatico a distanza, come avviene attraverso Internet, con Facebook o con altre forme di comunicazioni virtuali, senza il contatto visivo e corporeo, che non crea veri rapporti affettivi, ma soltanto illusioni e sentimenti irreali.Le comunicazioni elettroniche, i viaggi più facili favoriscono relazioni con persone lontane, ma creano relazioni rapide, fugaci, che seguono lo stesso criterio di consumare un bene subito e sostituirlo rapidamente con un altro. In tal modo a pagare il prezzo di questo modo di vivere è l'amore per il prossimo di cui parla la Scrittura, che è messo in crisi fino a diventare un'astrazione.

 

Proposta per una vita di senso

Come ci poniamo noi cristiani di fronte ad una società costruita su queste basi? Quale via di uscita abbiamo per non cadere nella trappola di una società del modello "usa e getta"? E quale tipo di società intendiamo costruire come cristiani? Quali uomini e donne vogliamo che ci siano nel futuro?

Il brano del Deuteronomio (8, 1-6) è la parola di speranza e di fiducia offerta ad un popolo, ad una collettività, ma anche ad ogni singola persona, ad ognuno di noi.

Perché il nostro testo ci parla di comandamenti da mettere in pratica; perché abbiamo dei comandamenti da seguire?

Perché il comandamento è un limite imposto al nostro desiderio di libertà onnipotente. Il comandamento ha una funzione terapeutica, ci guida, ci cura e ci rassicura. Il comandamento ci fa diventare veri uomini e vere donne, perché sollecita il nostro libero arbitrio e ci permette di scegliere se e come stare dalla parte di Dio nell'esperienza del deserto.

Ovviamente il deserto è metafora della nostra vita, con tutta la sua bellezza ed il suo fascino, ma – ahimè – anche con le sue insidie e la sua aridità, Il deserto è il luogo del silenzio e della meditazione, dove le domande sul senso e sullo scopo della vita si fanno più pressanti, dove tu vai alla ricerca della tua vera identità.

Nel deserto (midbar) si sperimenta la pedagogia di Dio, che ti incontra e che si rivela come colui che parla (meddaber) al tuo cuore (Osea 2, 16).

Ma il deserto della nostra vita è il luogo di combattimenti incessanti, di incontri e scontri, è un luogo di tentazioni, e dunque esso è anche una grande scuola di formazione che ci insegna a riconoscere il nemico che ci insidia, cioè colui o colei o quella cosa che ostacola la nostra relazione con Dio e che ci fa deviare dal nostro cammino con Lui.

Il deserto è il luogo dove Dio prova la nostra fede. Sì, Dio prova la nostra fede. Non dobbiamo stupirci di questo, perché la sua prova non è un giudizio su di noi, ma una scuola nella quale la nostra fede si fortifica e diventa consolazione quando sei nello sconforto, diventa una perfetta armatura quando cerchi protezione e mette le ali alla tua ricerca di libertà e di felicità. La prova ti fa diventare adulto, ti fa crescere, ti rende sapiente e ti insegna a camminare fidando completamente nel Signore e nella sua Parola.

Noi possiamo gustare la presenza di Dio tutte le volte che, invocando con umiltà il suo aiuto, ci dà l'acqua delle oasi o della roccia, il riposo all'ombra delle sue palme, il nutrimento della manna che ci provvede ogni giorno e che crea lo stupore della nostra anima quando ci chiediamo, come il popolo d'Israele, "man hu', "che cos'è". Che cos'è quest'amore divino che si prende cura di noi, che fa appello alla nostra memoria per ricordarci di Lui, che ci chiama all'ubbidienza per seguirlo per sentieri di pace, di solidarietà, di fraternità, che ci chiama alla libertà? Che cos'è questo Dio che nel deserto della nostra vita ci sottopone alla prova per umiliarci, cioè per renderci consapevoli che siamo humus, terra, (da cui umiltà), per vedere cosa c'è realmente nel nostro cuore?Nei tempi della crisi e della prova, che non mancano nella nostra breve esistenza, siamo chiamati a considerare che la vita è precaria e che il suo valore non sta nel vivere di solo pane, cioè di beni e tutto quanto serve per la vita materiale. La prima tentazione di Gesù nel deserto fu quella del cibo, della fame. «Se tu sei Figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pani». Ma egli rispose: «Sta scritto: "Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio"» [Deut. 8,3]. Ciò significa che noi abbiamo vita non solo cibandoci del pane materiale, ma nutrendoci di tutto ciò che viene dalla bocca di Dio, la sorgente vera della nostra vita personale, familiare, ecclesiale ed anche sociale.

Fratelli e sorelle, non scoraggiamoci, dunque, se stiamo attraversando delle gravi difficoltà e se tutto ci sembra oscuro. Raccogliamo le nostre forze per continuare il cammino che la sua parola ci indica e fondiamo la nostra vita presente e futura in Cristo Gesù e nella sua parola.

Quando Cristo vive in noi, anche in tempi di crisi (i 40 anni del deserto), il vestito che indossiamo non si logora né il nostro piede si gonfia, dice il testo di Deuteronomio.

La Scrittura con queste due espressioni ci consola e ci conforta, perché ci fa vedere quali benedizioni riceviamo nella nostra vita se siamo fedeli e ubbidienti. Il vestito non si logora, cioè la nostra testimonianza non cesserà e non vacillerà; il nostro piede non si gonfia, cioè non ci stancheremo di lavorare per il Signore nel cammino di questo mondo.   

                                                                                                                            Aldo Palladino

24 marzo 2009


Vangelo di Giovanni 20, 20-26
LA CROCE,SEME PER UN GRANDE RACCOLTO


 

di Aldo Palladino

 

Chiesa Valdese di Via Nomaglio, 8 - Torino

Domenica, 22 marzo 2009

 

Il testo biblico

20 Or tra quelli che salivano alla festa per adorare c'erano alcuni Greci. 21 Questi dunque, avvicinatisi a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, gli fecero questa richiesta: «Signore, vorremmo vedere Gesù». 22 Filippo andò a dirlo ad Andrea; e Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.

23 Gesù rispose loro, dicendo: «L'ora è venuta, che il Figlio dell'uomo dev'essere glorificato. 24 In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. 25 Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna. 26 Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore; se uno mi serve, il Padre l'onorerà.

 

Letture bibliche d'appoggio al testo: Salmo 84; 2 Cor. 1,3-7

 

 

Il contesto

Quest'episodio è raccontato soltanto dall'evangelo di Giovanni per colmare una lacuna narrativa dei Sinottici, ma soprattutto per arricchire gli eventi della Passione.

L'attenzione della folla era cresciuta intorno a Gesù per i suoi miracoli, tant'è che molti Giudei, che avevano visto le cose fatte da Gesù, credettero in lui (Gv. 11,45). Molti erano stati presenti alla risurrezione di Lazzaro e ne rendevano testimonianza (Gv. 12,17). Altri, invece, "andarono dai farisei e raccontarono loro quello che Gesù aveva fatto" (Gv. 11,46).

Farisei e capi sacerdoti avevavo maturato forti preoccupazioni ed anche grande irritazione per l'azione di Gesù e dicevano: "Ecco, il mondo gli corre dietro" (Gv. 12,19). E Caiafa aveva detto nel sinedrio: "Voi non capite nulla, e non riflettete come torni a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione". Parola che Giovanni riporta perché la considera profetica (Gv. 11, 50-51).

 

Vedere Gesù

Nel nostro testo, dei Greci [e non "ellenisti", che sono ebrei della diaspora], forse persone convertite o perlomeno simpatizzanti, che si trovavano a Gerusalemme in prossimità della festa della Pasqua,  esprimono il desiderio di "vedere Gesù", che nel linguaggio giovanneo significa che desiderano conoscerlo più in profondità.

Dunque, parlano prima con Filippo, forse perché Filippo era un nome greco o perché probabilmente conosceva il greco, o perché aveva avuto contatti con i Greci della Decapoli. E Filippo parla ad Andrea [il "primo chiamato" dei discepoli, come amano ricordare i teologi ortodossi nel loro dialogo con Roma, fondandosi su Gv. 1, 41-42], e insieme decidono di portare questa richiesta a Gesù. Qui i discepoli fanno da filtro come in altre occasioni (Lc. 18,15-16).

Non sembra che Gesù abbia incontrato i Greci o, se li ha incontrati, non risponde loro direttamente, perché la sua risposta è rivolta ai discepoli. È certo però che la risposta fa riflettere.

Cosa dice Gesù nella sua risposta?

Credo che Gesù dica a tutti quelli che sono animati da curiosità di vederlo che è giunta l'ora in cui lo vedranno nel momento della sua glorificazione (Gv. 12, 23; 13, 1; 17, 1), cioè nel segno più grande della sua vita: la morte per la redenzione dell'intera umanità. L'ora della sua morte è per Gesù l'ora della sua gloria. È il kairòs del venerdì santo e della Pasqua. È come se Gesù dicesse: " Volete vedere e sapere chi sono io? Ebbene, per sapere chi sono io e conoscere me e il mio evangelo dovete attendere la mia croce e la mia risurrezione".

In un'altra occasione, già agli scribi e ai farisei che un giorno gli avevano chiesto: "Maestro, noi vorremmo vederti fare un segno", Gesù rispose: " Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona" (Mt. 12,38-39). Segno della sua morte.

Se vuoi vedere Gesù, se vuoi conoscere tutto di lui devi andare ai piedi della croce e visitare una tomba vuota!

 

Il significato della morte di Gesù

Ai suoi discepoli Gesù indica che sta arrivando il momento finale, la sua "ora". Ma anche in questa occasione non manca di far capire a loro il senso profondo del suo sacrificio. La metafora è eloquente ed esplicativa del perché va alla morte. Egli parla della necessità che un granello di frumento cada nella terra per morire, perché solo se muore quel seme porta frutto. 

Gesù è il granello di frumento. Solo se il frumento muore può nascere una spiga e dunque tanti chicchi nuovi che rappresentano il raccolto del Signore.

Dunque, la metafora che Gesù presenta è il messaggio fondamentale dell'Evangelo: morire per dare vita ad altri; è l'amore oblativo, l'amore che dà se stesso per generare vita. Siamo dinanzi ad un paradosso: morendo si vive, vivendo si muore; chi perde la sua vita perché la mette a disposizione del prossimo, la conserverà in vita eterna; chi dona se stesso ritrova se stesso.

Questo non è un gioco di parole ma è l'essenza dell'evangelo che sovverte ogni nostro principio di convivenza umana.

Noi siamo portati a vivere per noi stessi; Gesù vive per il bene e la salvezza del mondo.

Noi vogliamo innalzare ed esaltare noi stessi; Gesù si abbassa ed esalta la volontà del Padre suo.

Noi pensiamo alla ricchezza ed al nostro benessere; Gesù non persegue l'amore del denaro e si fa povero per arricchire gli altri.

Nella natura ciò che prevale è l'istinto di autoconservazione e la regola che ne è alla base è:  mors tua vita mea. E l'uomo nel corso della storia ha vissuto sovente con questa regola animalesca. Gesù insegna invece la regola mors mea vita tua, per sacrificare se stessi per amore dell'altro, per donare senza pensare ad un interesse personale.

Gesù insegna a sapersi svuotare e rinunziare ad ogni tipo d'idolatria. Svuotarsi per dipendere unicamente da Dio. Farsi ubbidienti al Padre per produrre frutti alla gloria di Dio.   

In fondo, il comandamento di Gesù è: " …che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita…" (Gv. 15, 12-13).

 

Imparare a "morire"

Gesù ci insegna il significato della sua morte, ma ci dice anche che noi dobbiamo imparare a morire.

La società moderna ha tentato attraverso lo sviluppo economico neoliberale e tecnologico di rendere l'uomo più indipendente e autonomo, tale da non dipendere più da nessuno. Il modello di vita che ci prospetta e che ci costruisce ci costringe a rinchiuderci in noi stessi, nelle nostre case, e ci fa vivere tutti più soli, indifesi, pieni di paure, con la prospettiva che ognuno si risolva i propri problemi, da soli senza ricorrere all'altro. Questo progetto di vita ci rende tutti disumani. 

Gesù dice: "Chi ama la sua vita, la perde". Chi si chiude in se stesso e ama la sua vita solo per se stesso, in un amore egocentrico che serve a curare solo i propri interessi, rovinerà o distruggerà la sua vita. Calvino traduce: "Mettre en perdition", come in tal senso compare in vari loghìa di Gesù (Mt. 10, 39; 16, 25; Mc. 8, 35; Lc. 9, 24; 17, 33). 

Dunque, non si può fare a meno di riscoprire cosa è la vera vita di cui parla Gesù.

È la vita che va vissuta con lo sguardo rivolto al suo modello, alla sua parola e alla sua vittoria definitiva. È la vita vissuta alla sequela di Cristo, tenendo ben saldi i principi di solidarietà, che fa prevalere non il singolo individuo ma la comunità, che realizza una società fraterna e riconciliata, dove ci si mette al servizio non per realizzare se stessi individualmente, ma per procacciare giustizia, pace, verità verso tutti gli uomini.

Nel corso della storia, molti hanno udito e accolto questa parola del Signore ed hanno risposto con l'impegno della propria vita, che quasi sempre si è conclusa col martirio: Antonio Banfo e Willy Jervis davanti al plotone di esecuzione, Jacopo Lombardini nella camera a gas, Dietrich Bonhoeffer alla forca. Sophie e Fritz Scholl davanti al boia di Monaco, l'ortodosso Pavel Florenskij fucilato a Leningrado dopo anni nel Gulag, Martin Luther King davanti al suo assassino, Simone Weil, cristiana senza battesimo morta nel sanatorio di Ashford con l'anima consumata dalla tragedia della storia, della Shoah. L'elenco di uomini e donne che sono stati tribolati, ridotti all'estremo, perseguitati e uccisi, perché hanno voluto essere coerenti con la propria fede e con gli ideali di giustizia e libertà per la salvezza di tutti noi, potrebbe continuare.

Anche noi siamo chiamati, cominciando dalle cose piccole della nostra quotidianità, a vivere la parola del Signore, che alla fine ci onorerà con la sua approvazione: "Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore" (Mt. 25,21).

 

Aldo Palladino

10 marzo 2009

IL CONGO BRUCIA, ANCORA

di Jean Lèonard Touadi

Lo spettro di un altro genocidio. I nodi irrisolti del conflitto. Le ambizioni dei vicini. Lo spazio vitale del Ruanda. Le risorse minerarie. L'imponenza e l'impotenza della Monuc. Perché dobbiamo salvare l'ex Zaire.

Il Congo brucia ancora una volta. Le cronache da questo gigante territoriale (2.345.000 km², circa tutta quanta l'Europa occidentale) tornano a parlare di ribelli, uccisioni, stupri, bambini arruolati forzatamente nelle varie milizie, sfruttamento selvaggio delle immense ricchezze di questo territorio. Più grave ancora lo spettro di un nuovo genocidio che si aggira per il Congo orientale: da settimane un milione e seicentomila profughi vagano nella giungla senza cibo, acqua potabile nè assistenza. Nella loro fuga s'imbattono in miliziani senza scrupoli pronti a razziarli delle poco cose in loro possesso e a stuprare donne fiaccate dagli stenti della fame e della marcia forzata. A questo macabro gioco di guerra non sfuggono nemmeno le bambine, poi costrette a passare alcune notti in centri protetti presso le missioni cattoliche o presso le poche ONG rimaste operanti nella zona del Kivu.

Come fosse un Sisifo formato-paese, nonostante gli accordi di pace firmati a gennaio dello scorso anno, le lezioni politiche e presidenziali che avevano segnato un'effimera svolta politica, e nonostante la presenza della più imponente ed impotente forza dell'ONU (17.000 soldati), il Congo ha riannodato il filo mai spezzato della sua drammatica storia fatta di violenze cicliche dall'epoca coloniale. Dai crimini di re Leopoldo II  - un genocidio di circa 11 milioni di congolesi tra il 1880 e il1908 - fino ai giorni nostri passando per gli anni terribili dell'indipendenza conseguita nel 1960 e culminata con il martirio del padre dell'indipendenza, Patrice Lumumba. La violenza in Congo non è contingente: è strutturale alla sua nascita, avvenuta al Congresso di Berlino (1885).

 Leopoldo II riceveva il mandato di amministrare lo "stato indipendente del Congo" come sua "proprietà personale" (bestie e uomini compresi): La violenza è la stoffa insanguinata della conquista dell'indipendenza pesantemente condizionata dalla guerra fredda e dagli appetiti delle multinazionali belghe e statunitensi che non intendevano rinunciare ai ricchi giacimenti del Katanga. E' una pesante eredità del regime totalitario e cleptocratico del dittatore Mobutu che ha "regnato" incontrastato sul Congo dal 1965 fino al 1997, quando le truppe del capo dell'Alleanza delle Forze democratiche (ADFL) di Laurent Kabila avviavano la lunga marcia verso la presa di potere a Kinshasa. L'incompiuta transizione congolese, da allora, è una scia di sangue, tradimenti, scissioni e guerre in tutto il territorio nazionale: nemmeno il giovane figlio di Kabila, l'attuale presidente, è riuscito a pacificare il paese.

Ma quali sono i nodi principali della guerra congolese?


Innanzitutto, la costante minaccia all'integrità territoriale del Congo da parte dei suoi vicini con la complicità di forze internazionali che puntano allo sfruttamento delle sue ricchezze.

 

Ricchezze e posizione geostrategica nel cuore del continente, quell'Afrique médiane a metà strada tra l'Oceano indiano e l'Atlantico, tra la minaccia fondamentalista che proviene dal Mar Rosso e dal Corno d'Africa e le riserve strategiche di petrolio del Golfo del Benin e del Golfo di Guinea. Chi controlla il Congo è in grado di dirigere il traffico tra i territori sensibili del Sudan, dell'Etiopia, dell'Eritrea e della Somalia e gli importanti giacimenti del Cabinda, della Guinea Equatoriale e del Congo-Brazzaville.

Senza contare, come ricordato, lo "scandalo geologico" delle risorse minerarie del Congo: uranio (yellowcake fondamentale per l'energia nucleare), oro, diamanti ma soprattutto coltan (colombo-tantalite), indispensabile nella new economy (telefonini gsm, computer e componentistica aeronautica). La geopolitica del cinismo guidata non da motivazioni ideologiche, ma da corposi interessi economici locali e stranieri ha trovato nella peculiarità geologica del Congo il suo laboratorio insanguinato. Interi pezzi di territorio nazionale sono sottratti all'autorità dello Stato (volutamente indebolito) e lasciati alle orde feroci e voraci delle milizie. E' il caso di riaffermare la tesi congolese – suffragata dalla Carta fondativi dell'Organismo panafricano - dell'intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione e che nessun vicino può unilateralmente rimettere in discussione sotto qualsiasi motivo.

Poi, la questione delle garanzie da fornire al Ruanda in merito alla permanenza delle milizie hutu alla frontiera con il Congo, cui si aggiunge il pretesto spesso usato in questi anni della protezione delle etnie di ceppo tutsi che vivono nell'Est del Congo. Sono due questioni che non bisogna sottovalutare perché costituiscono l'argomentazione di base del Ruanda per il suo, diciamo cosi, interesse per il Congo. Occorre ricordare che la presenza delle milizie hutu (FDLR= Forze democratiche per la liberazione del Ruanda) nella parte orientale del Congo è ormai residuale e comunque non tale da minacciare il ben addestrato ed equipaggiato esercito ruandese. Nessuno nega tuttavia il diritto-dovere del Ruanda di difendere il suo territorio. La questione semmai è quella di stabilire se questa difesa debba avvenire a partire dal territorio congolese controllato attraverso milizie amiche e non invece a partire dal territorio ruandese stesso.

Esiste, senza dubbio, il legittimo sospetto di un eccesso di legittima difesa da parte ruandese. La questione di uno spazio vitale per il Ruanda - cosi esiguo territorialmente e con una popolazione in forte crescita - esiste, ma Kigali non dovrebbe risolverla occupando un pezzo di territorio congolese. La soluzione sta nella costituzione di una comunità regionale dei Grandi laghi, con una concordata libera circolazione dei beni e delle persone, uno spazio di scambio economico, delle parziali cessioni di sovranità in materia doganale e di codice degli investimenti. Questa soluzione avrebbe il vantaggio non secondario di interrompere il secolare faccia a faccia tra tutsi e hutu inserendoli in un contesto relazionale più vasto. Questo potrebbe essere lo scopo principale di una conferenza internazionale dei Grandi laghi incaricata di definire, in un quadro condiviso e con impegni costringenti per le parti, i nuovi assetti della regione. E' convinzione di tutti che è tramontata l'era degli accordi separati. La regione dei Grandi laghi africani aspetta una sua "Yalta" che possa fissare i nuovi equilibri e gli obiettivi d'integrazione.

Il governo congolese di Kabila ha dimostrato la sua incapacità di assicurare la pace dentro i confini nazionali. Resterà a lungo nella mente dei congolesi l'immagine del proprio esercito in fuga dalle zone di combattimento. Il primo ministro uscente Gizenga non ha mai messo piede nel Kivu in due anni d'incarico. Il nuovo governo ha avuto come mandato prioritario quella di garantire la sicurezza e la stabilità nei confini orientali del paese.

Ma è nella gestione delle risorse minerarie che Kabila non ha innovato rispetto al passato recente del paese: la stragrande maggioranza dei congolesi vive sotto la soglia di povertà, l'inflazione è altissima, il potere d'acquisto inesistente, i servizi di base carenti e le infrastrutture fatiscenti.

E ciò nonostante i contratti miliardari firmati con le potenze occidentali e le multinazionali cinesi (l'ultimo proprio nella regione del Kivu). Non ci sarà pace in Congo se la ricostruzione e la normalizzazione non passeranno dalle declamazioni governative alla vita concreta dei congolesi. Non potrà esistere una nazione congolese senza uno Stato. L'urgenza per Kabila è duplice: da un lato ristabilire i principi basilari della statualità dopo la completa liquefazione dello Stato durante i lunghi anni del regime di Mobutu; dall'altro operare per assicurare alla popolazione il soddisfacimento dei bisogni essenziali che sono diritti basilari di cittadinanza. Senza prima ripristinare l'amministrazione centrale sarà difficile rivendicare la sovranità su un territorio senza regole e un popolo senza comunità.

La comunità internazionale deve onorare il proprio debito nei confronti della regione dei Grandi Laghi africani. Perché non ha impedito il genocidio ruandese e perché ha lasciato i congolesi da soli ad assorbire l'onda d'urto di un genocidio che ha rilasciato le sue scorie tossiche nel vicino Congo. L'imponenza e l'impotenza della Monuc sono un'onta per la diplomazia internazionale. Le immagini della popolazione di Goma che aggredisce le forze internazionali che avevano la missione di proteggerla sono emblematiche della rabbia e della frustrazione del Congo nei confronti della comunità internazionale. Essa può riscattarsi subito, attraverso la creazione di corridoi umanitari per portare soccorso alle popolazioni in fuga; operando per creare le condizioni di un ritorno alla normalità nel più breve tempo possibile con programmi mirati, risorse certi e tempi lunghi d'attuazione.

Salviamo il Congo perché una parte della nostra umanità sta morendo insieme alle popolazioni del kivu nelle foreste e nei campi profughi. Salviamo il Congo perché non è giusto che popolazioni inermi paghino il costo della globalizzazione impazzita che sconvolge i territori e disumanizza le comunità in nome delle materie prime da sfruttare a qualunque costo. Salviamo il Congo perché è il cuore dell'Africa. Il cuore malato di un corpo che aspetta di diventare il partner dell'Europa per la nascita dello spazio euroafricano.

10/10/2008                                                                                          Jean Léonard Touadi

 

Ho deciso di pubblicare quest'articolo dopo aver ascoltato le relazioni di amici Congolesi in occasione di una conferenza presso la Casa Valdese, a Torino.

Noi cristiani di qualunque confessione non tolleriamo il silenzio dinanzi allo scempio, alle distruzioni, alle devastazioni e allo sfruttamento della popolazione e del territorio del Congo, perché chi tace è complice.

Per questo motivo, vogliamo a gran voce denunziare tutte le manovre politiche, economiche di quelle nazioni o di quelle multinazionali, occidentali e non, e di ogni gruppo di potere, che si prefiggono di accrescere la propria ricchezza e di mantenere il proprio livello di benessere ai danni delle popolazioni africane e del Congo in particolare.

 

Aldo Palladino

01 marzo 2009

Matteo 4,1-11

La tentazione di Gesù

 

Predicazione di Aldo Palladino

 


Chiesa Evangelica Battista
Via Viterbo, 119 – Torino
Domenica, 1 marzo 2009


Il testo biblico

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2 E, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3 E il tentatore, avvicinatosi, gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pani». 4 Ma egli rispose: «Sta scritto: "Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio"» [Deut. 8,3].

5 Allora il diavolo lo portò con sé nella città santa, lo pose sul pinnacolo del tempio, 6 e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; poiché sta scritto:

"Egli darà ordini ai suoi angeli a tuo riguardo,

ed essi ti porteranno sulle loro mani,

perché tu non urti con il piede contro una pietra"» [Salmo 91,11-12].

7 Gesù gli rispose: «È altresì scritto: "Non tentare il Signore Dio tuo"» [Deut. 6,16].

8 Di nuovo il diavolo lo portò con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, dicendogli: 9 «Tutte queste cose ti darò, se tu ti prostri e mi adori». 10 Allora Gesù gli disse: «Vattene, Satana, poiché sta scritto: "Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto"»[Deut. 6,13].

11 Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli si avvicinarono a lui e lo servivano.

 

Letture d'appoggio: Salmo 70; Eb. 4,14-16

 

Gesù nel deserto

questo episodio della tentazione di Gesù si trova nei vangeli sinottici subito dopo il battesimo al fiume Giordano dove, come ricorderete, ci fu quella gloriosa visione dei cieli che si aprirono, dello Spirito Santo che scese in forma di colomba, della voce dal cielo che disse: " Questo è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto" (3,16-17).

Il nostro testo afferma che Gesù è condotto "dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo". Perché nel deserto per 40 giorni?

Perché il deserto è metafora della nostra vita, con tutta la sua bellezza ed il suo fascino, ma – ahimè – anche con le sue insidie e la sua aridità.
Il deserto è il luogo del silenzio e della meditazione, dove le domande sul senso e sullo scopo della vita si fanno più pressanti, dove tu vai alla ricerca della tua vera identità.

Nel deserto (midbar) si sperimenta la pedagogia di Dio, che ti incontra e che si rivela come colui che parla (meddaber) al tuo cuore (Osea 2, 16).

Ma il deserto della nostra vita è il luogo di combattimenti incessanti, di incontri e scontri, è un luogo di tentazioni, e dunque esso è anche una grande scuola di formazione che ci insegna a riconoscere il nemico che ci insidia, cioè colui o colei o quella cosa che ostacola la nostra relazione con Dio e che ci fa deviare dal nostro cammino con Lui.

Il deserto è il luogo dove Dio prova la nostra fede. Sì, Dio prova la nostra fede. Non dobbiamo stupirci di questo, perché la sua prova non è un giudizio su di noi, ma una scuola nella quale la nostra fede si fortifica e diventa consolazione quando sei nello sconforto, diventa una perfetta armatura quando cerchi protezione e mette le ali alla tua ricerca di libertà e di felicità. La prova ti fa diventare adulto, ti fa crescere, ti rende sapiente e ti insegna a camminare fidando completamente nel Signore e nella sua Parola.

Viene da pensare alla prova a cui fu sottoposto Abramo, quando Dio gli chiese di sacrificare il figlio unico, Isacco (Gen. 22,1-2), ed anche ai quaranta giorni e alle quaranta notti di Mosé sul monte Sinai, prima che Dio gli desse le tavole con i dieci comandamenti (Es. 34,28; Deut. 9, 9.18) o al profeta Elia o alla dura esperienza di Giobbe .

Ma il numero quaranta evoca anche il numero degli anni in cui Israele rimase nel deserto, dove fu messo alla prova da Dio per vedere cosa c'era nel suo cuore.

Anche Gesù, dichiarato Figlio di Dio al Giordano, come uomo doveva essere messo alla prova.

 

Tre tentazioni

Il nostro testo ci parla di tre tipi di tentazioni. Perché? Perché quando Gesù ha iniziato il suo ministero, nella società giudaica sono nate delle forti aspettative sul messianismo di Gesù, che doveva essere, a seconda degli orientamenti delle masse:
a) un "riformatore sociale";
b) un "taumaturgo di successo e di prestigio";
c) un "riformatore politico".

 

La prima tentazione

Nella prima tentazione Gesù deve affrontare un bisogno materiale, il bisogno di mangiare, perché dopo 40 giorni di digiuno, il nostro testo ci dice che "ebbe fame".

Ed ecco la tentazione: ""Se tu sei Figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pane".

Dostoevskij nell'opera I Fratelli Karamazov queste parole le commenta così: «Vedi tu queste pietre in questo nudo e infuocato deserto? Mutale in pani e l'umanità sorgerà dietro a te come un riconoscente e docile gregge, con l'eterna paura di vederti ritirare la mano e rimanere senza i pani».

Il senso della proposta satanica è limpido: non sei qui per guidare l'umanità? Risolvi i suoi problemi - e quello del pane è il primo - e ad essa non parrà vero di consegnarti la sua libertà.

Se avesse trasformato le pietre in pani avrebbe mostrato che non aveva bisogno del Padre per vivere. Invece, la sua risposta è stata: "Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio". Il vero miracolo è la perfetta ubbidienza alla volontà del Padre. Questo è il cibo di cui si nutre e vive Gesù. Lo disse ai suoi discepoli: " Il mio cibo è di far la volontà di colui che mi ha mandato" (Giov. 4,34). Dunque, Gesù qui rifiuta la tentazione a diventare un "messia riformatore sociale" in grado di risolvere il problema delle masse affamate. Qualcuno ha affermato che Satana ha cercato di indurre il Signore a diventare un fornaio piuttosto che il Salvatore dell'umanità.

Anche oggi, dinanzi alla crisi economico-finanziaria tra le più gravi che la nostra società abbia avuto negli ultimi 80 anni, c'è quest'idea di aspettare qualcuno, una persona o un ordine nuovo, che risolva il problema di tanti lavoratori che perdono il posto di lavoro e che si trovano in seria difficoltà a procurarsi del pane essenziale alla vita. Si aspetta qualcuno che abbia il potere di trasformare le pietre in pani.

Come cristiani, discepoli e seguaci di Gesù, non stiamo con le mani in mano dinanzi alle difficoltà del momento e desideriamo assumerci le nostre responsabilità per cercare soluzioni a questa crisi, ma non possiamo esimerci dal pregare il Padre Nostro e dire: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano".

Come Israele nel deserto, anche noi saremo nutriti della manna e impareremo la grazia di Dio, che ci provvede giorno per giorno ciò di cui abbiamo bisogno. Il pane è necessario, ma il pane non basta: occorre cibarsi e vivere della Parola di Dio, quella Parola che educa le coscienze e rende solidali.

 

La seconda tentazione

In questa tentazione, Gesù è condotto a Gerusalemme, sul pinnacolo del Tempio (=piccola ala del Tempio). Non sappiamo se sia stato realmente trasportato o sia stata una visione o un dubbio della sua mente; in ogni caso, a Gesù, Figlio di Dio, è stato proposto di gettarsi giù dal tempio, tanto Dio, attraverso i suoi angeli, lo avrebbe preso a volo e sostenuto (Salmo 91,11-12).

All'uso provocatorio e blasfemo della Scrittura da parte del diavolo, Gesù risponde con un'altra parola della Scrittura: "Non tentare il Signore Iddio tuo" (Deut. 6,16).

Gesù ci insegna che la vera fiducia in Dio non consiste nel mettere alla prova Dio e a verificare se egli sia presente nella nostra vita attraverso suoi interventi soprannaturali, ma nella sottomissione a lui e nella totale fiducia in Lui senza dubitare.

Israele nel deserto commise il peccato di dubitare se Dio era tra loro quando a Massa (= tentazione) e Meriba (=contesa) tentarono il Signore dicendo: "Il Signore è in mezzo a noi, si o no?" (Es. 17,6-8).

Impariamo da questa seconda tentazione come il mondo ci possa sedurre proponendoci un cristianesimo legato al successo. È diabolico pensare di avere noi ogni soluzione nelle mani, visto che siamo figli di Dio.

Quanti tentativi sono stati fatti nel corso della storia per fare di Cristo un semplice taumaturgo e del cristianesimo un'ideologia miracolistica, che a richiesta sapesse soddisfare i desideri delle masse!

Anche a Gesù i contemporanei chiedevano sempre nuove prove, nuovi miracoli e sempre più spettacolari, come quando gli scribi e i farisei gli chiesero: "Noi vorremmo vederti fare un segno" (Mt. 12, 38). E Gesù rispose: "Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona" (Mt. 12, 39), cioè il segno della morte e della risurrezione di Gesù.

Chi cerca una religione dei miracoli non ha ancora compreso il messaggio dell'Evangelo, che ci porta alla croce, ci fa vedere la tomba vuota, che ci annunzia che Gesù è risorto e ci invita ad adorare Dio in Spirito e in verità,.

 

La terza tentazione

È l'idolatria: "Tutte queste cose io le darò a te, se prostrandoti, tu mi adori", dice Satana;. E Gesù, parafrasando Deut. 6,13, risponde: " Adora il Signore Iddio tuo, ed a lui solo rendi il culto".

Come nel giardino d'Eden, dove il serpente antico aveva sedotto Eva ed Adamo dicendo loro che sarebbero diventati come Dio, qui Satana offre a Gesù i regni della terra in cambio della sua adorazione. Ma Gesù lo scaccia via citando ancora una volta la Scrittura, che nella sua vita ha un'importanza centrale.

La tentazione è di essere un Messia "riformatore politico" che avesse il controllo dei regni della terra attraverso un potere forte, prestigioso, senza Dio e, dunque, asservito al potere del male. Un Messia capace di sconfiggere il nemico romano e fosse il restauratore della casa Davidica con la forza delle armi.

Gesù rifiuta quel tipo di Messia. Egli adora Dio, l'unico vero Dio, e non si sottomette a nessun altro, neanche in cambio di tutti i regni della terra. La sua vocazione non è il potere, ma il servizio. La sua vocazione non è essere seduto nei palazzi del potere, ma è tra la gente per servire il prossimo.

Oggi, la nostra società, in modo particolare quella italiana, patisce una crisi di valori, perché tutti pensano al successo, al potere personale, a dominare gli altri, a fare soldi, senza mettere in gioco nulla di sé per il bene del paese. Sta prevalendo nella nostra Italia una cultura che ha dimenticato ogni sentimento di solidarietà, di accoglienza, di condivisione, di abnegazione e di servizio per il bene di tutti, in uno spirito di giustizia e di pace. Una società costruita su uno spirito di dominio e di sopraffazione non può reggere nel tempo ed è destinata ad implodere. Al contrario, una società fondata su principi di vera libertà e democrazia, di rispetto, di amore e di servizio per Dio e per il prossimo è destinata a prosperare.   

 

Gesù ha vinto per noi

Le tre tentazioni di Gesù ci inducono ad una seria riflessione sulla coerenza tra la nostra fede, che professiamo, e la nostra vita, che pratichiamo. Troppo spesso sacrifichiamo principi di fede pur di ottenere qualche vantaggio o qualche interesse personale in qualche attività della nostra vita.

Gesù ci insegna ad essere figli di Dio fino in fondo, a saperci opporre alle insidie, alle tentazioni ed alle seduzioni di questo mondo, perché "egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato" (Eb. 4,15). Dunque siamo sempre chiamati ad avere una fede salda e non vacillante, a metterci nella sequela di Cristo.

La vera libertà si conquista non con le lotte di potere, né guadagnando tutte le ricchezze di questo mondo, né conquistando posizioni di primato e di grande successo. La vera libertà è un dono che Dio ci elargisce in Cristo, perché Gesù Cristo ci rappresenta come uomo, prendendo si di sé tutta la nostra misera umanità di peccato.

Il destino finale di Gesù alla croce, con la sua resurrezione e la sua glorificazione, non poteva avere delle scorciatoie e, dunque, imponeva un cammino obbligato. La strada per la vittoria finale era costellata di ostacoli a cominciare dall'esperienza del deserto. La sua vittoria non è stato un evento di un momento, ma è la vittoria che ha conseguito durante tutta la vita. E Gesù ha vinto ogni giorno per noi; ora vuole vincere in noi e con noi dandoci la forza e il coraggio di affrontare le tentazioni e superarle. 

Se il mondo vuole eliminare Dio dall'orizzonte della vita, noi siamo chiamati ad affermare la sua signoria e la sua sovranità e ad invocare sempre il suo intervento nella nostra vita, pregando: "Io sono misero e povero; o Dio, affrettati a venire in mio aiuto; tu sei il mio sostegno e il mio liberatore" (Salmo 70,5). Amen.  

 

                                                                                    Aldo Palladino

08 febbraio 2009

PER ELUANA ENGLARO E PER I SUOI GENITORI, RISPETTO E  SOLIDARIETA' CRISTIANA DAL MONDO PROTESTANTE RIFORMATO

 

Vangelo di Marco 1:29-31

Predicazione del Past. Sergio Manna

 

Tempio Valdese di Pomaretto (TO)
Domenica, 8 febbraio 2009

 

 

Il testo biblico

29 Appena usciti dalla sinagoga, andarono con Giacomo e Giovanni in casa di Simone e di Andrea. 30 La suocera di Simone era a letto con la febbre; ed essi subito gliene parlarono; 31 egli, avvicinatosi, la prese per la mano e la fece alzare; la febbre la lasciò ed ella si mise a servirli.

 

 

Care sorelle e cari fratelli,

in questo breve episodio Marco ci racconta uno dei primi miracoli di Gesù.
Una donna è a letto afflitta dalla malattia. Gesù arriva, le prende la mano, la libera dalla febbre e la guarisce.

La donna è la suocera di Pietro che subito si alza e si mette a servirli.

C'è chi ha voluto fare una lettura malevola di questo miracolo.

Si tratterebbe di una guarigione maschilista, dettata da bassi bisogni primari.

Gesù e i suoi hanno fame e allora val la pena di guarire la suocera di Pietro, che altrimenti chi preparerà il pranzo?

Naturalmente fare una simile lettura vuol dire applicare categorie di pensiero moderne ad un racconto del I secolo.

In realtà, per la mentalità dell'epoca, quando c'erano ospiti di riguardo era considerato come un grande onore poterli servire.

Era un privilegio farlo;  un privilegio ed un onore che toccavano alla donna più anziana della casa.

E dunque, per la suocera di Pietro, l'essere ammalata proprio nel giorno in cui un famoso maestro era ospite in casa sua era sicuramente motivo di dispiacere.

Doveva pesarle molto il non poter esercitare l'onore e il privilegio che le spettava, di manifestare l'ospitalità a Gesù mediante il servizio che le competeva in quanto donna più anziana della casa.

E dunque, a bene vedere, Gesù nel guarirla rivela grande attenzione e sensibilità; le restituisce il suo ruolo, la sua posizione.

La guarigione che egli opera non ha soltanto un effetto fisico; ne ha anche uno di carattere sociale, perché reintegra la persona, le restituisce il suo status, la sua posizione, la sua funzione.

Non si tratta di un atto maschilista, ma di un'azione liberatrice che nasce dalla sensibilità e dall'attenzione ai bisogni della persona.

Ecco, qui c'è un punto importante che tocca anche l'attualità.

Essere sensibili e attenti ai bisogni delle persone e compiere gesti di liberazione.

Leggendo questa pagina del Vangelo non ho potuto fare a meno di pensare ad un'altra donna costretta a letto e impossibilitata a muoversi, per la quale però non sembra esserci alcuna guarigione possibile.

Mi riferisco a Eluana Englaro e al clamore suscitato dalla decisione della Corte d'Appello, confermata poi dalla Cassazione, di autorizzare l'interruzione dell'alimentazione forzata e degli altri supporti che la mantengono artificialmente in vita.

Eluana è in stato vegetativo permanente da 17 anni, inchiodata ad un letto, priva di coscienza, prigioniera di un corpo che è diventato il suo sarcofago.

Nel suo caso non sembra esserci alcuna possibilità di risveglio, di ritorno alla vita.

E' vero che c'è anche chi esce dal coma. E' vero che a Bologna esiste una Casa dei risvegli, dove vengono ricoverate persone in stato vegetativo permanente.

Ma se entro un anno tali persone non si risvegliano si rinuncia a seguirle, perché dopo un anno le speranze diventano troppo scarse.

Per  Eluana di anni ne sono passati ben 17 e ciò che si sta prolungando nel suo caso non è la vita; semmai l'agonia.

Quale gesto liberatorio richiederebbero in questo caso l'attenzione e la sensibilità ai bisogni della persona?

I familiari di Eluana chiedono dal 1992 che l'alimentazione forzata venga interrotta affinché la loro figlia possa andarsene in pace, così come accadrebbe in molti Paesi del mondo.

Eluana stessa, prima dell'incidente che l'ha ridotta in quello stato, aveva chiaramente  manifestato  la volontà di non essere tenuta in vita artificialmente se le fosse accaduto qualcosa. L'aver visto un amico in coma l'aveva portata a quella decisione.

Il tribunale, dopo aver esaminato ogni cosa, ha dato finalmente ragione ad Eluana e ai suoi genitori.

Ma la chiesa cattolica e i politici che dipendono troppo dal voto di quest'ultima gridano allo scandalo e non si vergognano di pronunciare parole durissime contro il padre di Eluana e contro quanti intendono, nel rispetto della legge e dell'articolo 32 della Costituzione,  rispettare l'autonomia e la volontà della persona.

Volano parole grosse: si parla di omicidio, di assassinio.

Beppino Englaro, un uomo consumato dal dolore, viene definito con arroganza come un padre snaturato.

E tutto questo nel nome di Dio.

Nessun rispetto per il dolore di quest'uomo e di sua moglie.

Nessun rispetto, nessuna sensibilità, nessuna attenzione ai bisogni della persona.

Autorevoli specialisti affermano che Eluana non soffrirà, perché le funzioni superiori del suo cervello sono intaccate e dunque non può provare né fame, né sete, né dolore; sensazioni che richiedono l'elaborazione della coscienza, cioè proprio ciò che manca a chi ha lesioni cerebrali come quelle di Eluana e si trova in stato vegetativo permanente.

Ma altri specialisti, messi in campo dall'associazione dei medici cattolici, insorgono e prospettano per Eluana una morte atroce: un farla morire di fame e di sete, quasi si trattasse di una persona perfettamente cosciente che viene chiusa in una stanza senza cibo né acqua fino alla morte.

Naturalmente non è così, ma evocare questo tipo di immagini fa certamente effetto sull'opinione pubblica.

A quanto pare anche il governo ha deciso di cavalcare l'onda e sembra intenzionato a impedire, tramite un decreto, ciò che un tribunale ha legittimamente autorizzato.

E in tutto questo si fa uso e abuso del nome di Dio.

Io ho la sensazione che in fondo a chi ha trasformato questa situazione dolorosa in una battaglia ideologica non importi nulla né di Dio né di Eluana.

E tuttavia voglio provare, soltanto per un momento, a credere alle tesi di chi sostiene che con la sospensione dell'alimentazione forzata e dell'idratazione artificiale Eluana soffrirà.

Questo vorrebbe dire che Eluana sarà cosciente di quello che le sta avvenendo.

Ma allora se sarà consapevole che sta morendo di fame e di sete, vorrà anche dire che è stata consapevole della propria condizione per tutti questi lunghissimi diciassette anni; consapevole di essere in un corpo che non può muoversi, che non può reagire, che non può comunicare in nessun modo con l'esterno, che non può manifestare emozioni, che non può controllare la in alcun modo le proprie funzioni; un corpo divenuto come una sorta di sarcofago.  E in più con la consapevolezza di essere tenuta in quelle condizioni contro il proprio volere, avendo a suo tempo dichiarato apertamente di preferire la morte a tutto questo.

Sarebbe pazzesco!

Come vi sentireste voi se vi trovaste al posto di Eluana e se foste consapevoli di essere in quella situazione da 17 anni?

Vorreste forse rimanerci per altri 40 anni (come vorrebbero i sedicenti "paladini della vita") o non preferireste piuttosto che quella tortura finisse, anche se si trattasse di morire di fame e di sete?

Cosa considerereste più atroce la morte o non piuttosto il prolungamento forzato della  vita in quelle condizioni?

A ciascuno la sua risposta.  

Da credente evangelico io penso che in questi come i altri casi debba valere ciò che Gesù ha detto ai suoi discepoli, tanto in positivo quanto in negativo:  "Fa' agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te", "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te".

Cosa vorremmo per noi stessi se ci trovassimo al posto di Eluana?

Il rispetto della nostra volontà o che la nostra volontà venga calpestata?

Se c'è una cosa che mi è diventata quanto mai chiara in questi giorni è la necessità assoluta che nel nostro paese si arrivi al più presto ad una legge seria sul testamento biologico, affinché casi come questo di Eluana (quale che sia il suo esito) non abbiano a ripetersi.

La gerarchia cattolica nel nostro paese appare come un blocco monolitico deciso a difendere la vita anche a costo di prolungare l'agonia di una persona fino all'inverosimile.

In Germania, invece, il cardinale Karl Lehmann, presidente della conferenza episcopale cattolica, insieme a Manfred Koch, presidente del consiglio delle chiese evangeliche tedesche, ha distribuito, un paio di mesi fa, nel duomo di Muenster, un esempio di testamento biologico che riconosce l'autodeterminazione della persona e il suo diritto di rifiutare tutte le procedure che non servono a migliorare la qualità della vita ma soltanto a dilazionare la morte.

Non si capisce perché Ratzinger e i suoi non possano prendere esempio dai loro colleghi tedeschi.

C'è ancora una cosa che mi lascia perplesso nell'atteggiamento di molti cattolici.

Tutto questo attaccamento alla vita, questo volerne impedire la fine naturale in ogni modo, mi sembra davvero in contraddizione con l'affermazione di credere nella resurrezione, in una vita oltre la vita, nell'esistenza del paradiso.

Tutto questo accanimento sul povero corpo di Eluana mi pare indegno da parte di persone che dicono di credere in un Dio misericordioso capace di liberare dalla sofferenza e accogliere chi muore nel suo regno.

Per vie naturali Eluana Englaro se ne sarebbe andata in pace già nel 1992; con metodi artificiali la sua vita è diventata un calvario per ben 17 anni.

L'agire del Signore Gesù Cristo è stato sempre caratterizzato dall'attenzione alla persona, ai suoi bisogni: un agire orientato alla liberazione.

E allora, da credente, mi chiedo (e vorrei chiedere a coloro che stanno manifestando fuori dalla clinica di Udine) cosa sarebbe davvero liberatorio per Eluana; cosa manifesterebbe davvero attenzione alla sua persona e ai suoi bisogni.

Ho iniziato riflettendo su Gesù che prende per mano la suocera di Pietro, la libera dalla febbre e l'aiuta ad alzarsi.

Voglio concludere ora con un'immagine diversa ma simile.

M'immagino Cristo seduto ai piedi del letto di Eluana, che le prende la mano e finalmente la libera da quel corpo divenuto il sarcofago nel quale è stata prigioniera per gli ultimi 17 anni; immagino Gesù che la libera e l'aiuta ad alzarsi per portarla con sé e donarle finalmente pace e riposo in attesa della resurrezione.

Oggi accenderò una candela e la metterò davanti alla finestra del mio studio e questa sarà la mia preghiera. Spero possa essere anche la vostra.

Sergio Manna
Pastore Valdese

03 febbraio 2009

Matteo 17, 1-9: La trasfigurazione di Gesù

Predicazione del Past. Stefano D'amore

 

 

Domenica, 1 febbraio 2009

Tempio Valdese di Torino

C.so Vittorio Emanuele II, 23

 

Il testo biblico

1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. 2 E fu trasfigurato davanti a loro; la sua faccia risplendette come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce. 3 E apparvero loro Mosè ed Elia che stavano conversando con lui. 4 E Pietro prese a dire a Gesù: «Signore, è bene che stiamo qui; se vuoi, farò qui tre tende; una per te, una per Mosè e una per Elia». 5 Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa li coprì con la sua ombra, ed ecco una voce dalla nuvola che diceva: «Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo». 6 I discepoli, udito ciò, caddero con la faccia a terra e furono presi da gran timore. 7 Ma Gesù, avvicinatosi, li toccò e disse: «Alzatevi, non temete». 8 Ed essi, alzati gli occhi, non videro nessuno, se non Gesù tutto solo.

9 Poi, mentre scendevano dal monte, Gesù diede loro quest'ordine: «Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell'uomo sia risuscitato dai morti».

 

Letture di appoggio: Filippesi 2,5-11; II Corinzi 4,3-10

 

Care sorelle, cari fratelli,

in un crescendo di nuovi arrivi, di nuovi personaggi, la scena man mano si completa: Gesù, prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Poi compaiono Mosè ed Elia e infine parla Dio.

Una scena che sembra un dipinto, proprio come quella immaginata e dipinta da Raffaello, per chi la ricorda.

Matteo non è un regista di film né di teatro, eppure ci fornisce tutti gli elementi per poterla vedere oggi con i nostri occhi questa strana esperienza mistica, fatta di apparizioni, luci, voci e metamorfosi, così vicina ad esempio a quella di Paolo sulla via per Damasco.

 

È chiaro fin da subito che questo racconto ha un forte carattere simbolico. Nelle predicazioni del mese di gennaio abbiamo incontrato diversi testi che rivelano l'identità di Gesù (proprio perché siamo nel tempo di Epifania). Provando a riassumere questo brano potremmo dire che qui viene espressa la conferma dell'identità di Gesù. I suoi discepoli possono sentirsi rassicurati, perché non chiunque poteva essere oggetto di quella trasfigurazione. Gesù è in linea di continuità con le profezie dei più grandi profeti (Mosè ed Elia), questo è il senso e Dio stesso dice che in questo suo figlio si compiace. Lo aveva già fatto in occasione del suo battesimo e ora lo ribadisce: "Questo è il mio figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto". E ora aggiunge anche "ascoltatelo!".

Anche la luce, il fulgore del volto e dei vestiti vanno in quella direzione. Ancora per noi l'immagine della luce ci rimanda a qualcosa di puro, candido, divino. Il messaggio è chiaro: Gesù è uomo ma è anche uno con il Padre. Lo confermano le profezie e lo conferma Dio.

Ma è importante notare che questa conferma arriva dopo che Gesù ha fatto già un po' di cose… Questo significa che secondo Matteo il Signore non conferma un'identità ideologica di Gesù. Dalla nuvola non arriva una voce che dice: quest'idea di mio figlio mi piace, questo programma per un ipotetico futuro lo sottoscrivo. Dio parla di suo figlio che è un uomo in carne ed ossa e che ha già guarito malati, paralitici e lebbrosi, che ha già istruito sull'amore verso i nemici, che ha condannato il formalismo religioso, i tesori sulla terra e il giudizio degli altri, che ha incontrato nelle loro case le emarginate e i peccatori.

Insomma, da Dio giunge una voce che approva e conferma il ministero di Gesù, così come era stato portato avanti fino ad allora. E l'invito forte a proseguire nella sequela di quest'uomo, ascoltandolo, arriva fino a noi.

 

Ma oggi mi piacerebbe che ci soffermassimo su un piccolo particolare di questo racconto, una frase che passa inosservata tra i commentatori e forse anche alla nostra lettura.

Non solo il volto di Gesù si trasforma, anche la scena che abbiamo descritto finora, carica di personaggi, significati… si trasforma!

Di fronte alla Parola di Dio che fuoriesce e scende dalla nuvola, i discepoli cadono a terra, presi da timore. Questo gesto è fondamentale nella nostra narrazione, da qui in poi entriamo in una nuova prospettiva.

Nonostante la loro immaturità, nonostante si trovino spesso a non comprendere le parabole di Gesù, sebbene siano a tratti distratti, titubanti o a volte anche assenti, l'istinto dei discepoli li porta a gettarsi per terra. Interviene la semplicità, la spontaneità del loro cuore e della loro fede: di fronte a Dio ogni protezione crolla, non resta che prostrarsi inermi di fronte alla Sua presenza e coprirsi gli occhi (proprio come Mosè sul Sinai ed Elia nella grotta avevano fatto). Non resta che ammettere la propria piccolezza di fronte a Dio, ai suoi progetti, alle sue dichiarazioni.

Questo gesto di crollare a terra, sopraffatti dalla voce di Dio, di gettare la faccia per terra e di chiudere gli occhi, è fondamentale perché permette loro (e arriviamo alla frase incriminata), permette loro, una volta alzati gli occhi, di vedere l'essenziale: Gesù da solo.

(Prendere la Bibbia) "Non videro nessuno, solo Gesù. Gesù solo. Soltanto Gesù. Gesù da solo. Gesù tutto solo (nelle varie traduzioni che si possono trovare).

È chiaro il senso del versetto: ad un tratto non c'era più nessuno dei personaggi di prima ed era rimasto solo lui.

Ma è rimasto "solo lui" o "lui da solo"?

Cioè, Gesù senza quelli che c'erano prima o Gesù in solitudine?

Piccola questione linguistica che dà un colore diverso, una pennellata d'ombra sul nostro dipinto.

Intravediamo grazie a quella parola di sole quattro lettere, una macchia d'inchiostro in mezzo a tante altre, un Gesù dal volto più umano, un Gesù che certo sa sedere ai banchetti di nozze, ma spesso si ritira in disparte per pregare, e a volte è trascinato da un destino che non vuole, imprigionato in un futuro impossibile da programmare.

E riaffiorano alla nostra mente altre situazioni in cui Gesù è solo. Tentato in mezzo al deserto, ogni volta che si ritira per pregare, nel giardino del Gezemani, sulla croce. La storia di Gesù deve essere stata anche una storia di solitudine.

Gesù deve essere stato anche solo. Ma a volte ci convinciamo che questa parola sia più vicina all'avverbio "solamente" che al sostantivo "solitudine". E come non ci è immediato riconoscere la solitudine di Gesù (e perché no forse anche la solitudine di cui soffre Dio) ci è difficile pure scorgere quando il nostro prossimo è solo. Ci fa male svelare la solitudine nascosta tra le pieghe della nostra esistenza. Non sopportiamo l'idea di scoprirci soli e non amiamo che qualcuno ci metta di fronte alla sua dolorosa solitudine.

 

Mi scopro solo, Signore,

come la stella del mattino

come il primo uomo sulla terra

come l'ultimo vecchio della borgata

solo,

come la voce che grida nel deserto

come chi si nasconde in una grotta sotto il mare

come chi conduce un popolo verso lo sterminio

solo,

come un colpo di fortuna

come l'unico bacio del traditore

come chi si è perso senza rendersene conto.

 

Fratelli e sorelle,

la sensazione di toccare il fondo conosce bene molti dei nostri cuori... Ma anche noi, in compagnia dei discepoli, siamo invitati dalla voce di Gesù che dice "Alzatevi, non temete".

Una volta ascoltata la Parola di Dio e invitati da Gesù, come i discepoli, risolleviamo il nostro sguardo perché forse proprio nella crudezza di questa immagine di Gesù tutto solo, se la osserviamo e la riconosciamo come vera, possiamo trovare una risposta.

Proprio nell'essenzialità del "Gesù solo" sta la novità che ci libera. Scompaiono Mosè ed Elia, le vecchie sicurezze, la proposta di mettere le tende nei ricordi o nelle tradizioni a cui leghiamo Cristo e la nostra fede si rivelano infantili, sparisce ciò che distrae, ciò che acceca e resta invece chiaro e nitido un solo contorno. Solo Gesù, come dissero i Riformatori: Solus Christus.

Ed è un Gesù adulto, indipendente quello in cui crediamo, che riprende subito dopo il suo percorso tra i villaggi della Palestina, verso Gerusalemme, verso la croce, dalla parte dei piccoli e dei deboli, spaventato e fedele. E' un Gesù che indica una via propria, che rivela l'amore di Dio. L'unico centro da cui partire, o con il quale proseguire. Il cammino dei discepoli al fianco di Gesù infatti prosegue. Dopo essersi rigenerati, raccolti sul monte per ricevere un messaggio e guardare in trasparenza la propria fede, arriva la discesa, ricomincia la settimana. Dal monte si scende e ci si immerge, con i versetti successivi, nella storia del ragazzo indemoniato, nel pagamento della tassa, nell'incontro con i bambini. L'urgenza di un mondo in agonia necessita che di tanto in tanto ci si fermi, ci si rigeneri e ci si disseti ad una fonte, ma richiede anche prontezza nel saper ripartire, anche per incontrare volti e storie di solitudine.

E tutto ciò acquista senso e significato se la strada che percorriamo guarda alla resurrezione. Noi sappiamo, a differenza dei discepoli, che su quell'altro monte, il Golgota, Dio sarà di nuovo presente e confermerà ancora suo figlio resuscitandolo.

Fratelli e sorelle, consapevoli che la via tracciata è stretta e tortuosa percorriamola insieme, certi che lungo quel cammino il Signore non farà mancare la sua presenza e pregando di riuscire, alzando gli occhi, a non vedere nessuno se non Gesù tutto solo.

Amen

                                                                                                Stefano D'Amore