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29 novembre 2016

EVANGELO SECONDO MATTEO 24, 1-14

Inizio del discorso profetico di Gesù

Studio esegetico/omiletico
A cura di Aldo Palladino


Il testo biblico
"1 Mentre Gesù usciva dal tempio e se ne andava, i suoi discepoli gli si avvicinarono per fargli osservare gli edifici del tempio. 2 Ma egli rispose loro: «Vedete tutte queste cose? Io vi dico in verità: Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata».
3 Mentre egli era seduto sul monte degli Ulivi, i discepoli gli si avvicinarono in disparte, dicendo: «Dicci, quando avverranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine dell'età presente?»
4 Gesù rispose loro: «Guardate che nessuno vi seduca. 5 Poiché molti verranno nel mio nome, dicendo: "Io sono il Cristo". E ne sedurranno molti. 6 Voi udrete parlare di guerre e di rumori di guerre; guardate di non turbarvi, infatti bisogna che questo avvenga, ma non sarà ancora la fine. 7 Perché insorgerà nazione contro nazione e regno contro regno; ci saranno carestie e terremoti in vari luoghi; 8 ma tutto questo non sarà che principio di dolori. 9 Allora vi abbandoneranno all'oppressione e vi uccideranno e sarete odiati da tutte le genti a motivo del mio nome. 10 Allora molti si svieranno, si tradiranno e si odieranno a vicenda. 11 Molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno molti. 12 Poiché l'iniquità aumenterà, l'amore dei più si raffredderà. 13 Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato. 14 E questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo, affinché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; allora verrà la fine".

***
Introduzione
Questo brano della Scrittura è l'inizio del discorso "apocalittico" di Gesù (dal greco apokalypto, rivelare, svelare o togliere il velo, scoprire, in riferimento al disvelamento di una qualche verità nascosta soprattutto se riguardo a Dio o al suo piano per il mondo) che segue i canoni dell'"apocalittica giudaica"- genere letterario che fiorì dal 200 a.C. fino al 135 d.C. –, che per quanto "figlia della profezia" e ad essa somigliante sviluppò tratti di differenziazione che le dettero nuovo carattere e personalità propria da costituire un corpus letterario a parte.  
Matteo, che si rifà a Marco per scrivere il suo vangelo, e Marco stesso hanno preso molto materiale dalla tradizione apocalittica allora circolante in Israele. Nelle "apocalissi sinottiche" di Marco, Matteo e Luca, ci sono frasi che si ritrovano in qualunque scritto giudaico di quel tempo che trattasse della fine di tutte le cose. Nel giudaismo era diffuso il presentimento di avvenimenti messianici e c'era la consapevolezza che i tempi nuovi fossero imminenti, ma che sarebbero stati preceduti da catastrofi cosmiche  e storiche sconvolgenti descritte con una serie di immagini (Satana e i suoi angeli contro i giusti, terremoti, guerre, carestie e così via). Si può dunque supporre che non tutto quanto troviamo nel capitolo 24 provenga dalla bocca di Gesù, ma "che la comunità primitiva gli abbia attribuito parole che provenivano dalla tradizione e che siano perfino stati intercalati nel capitolo brani di un'apocalissi giudaica che andavano di mano in mano su di un foglietto volante"( Günther Dehn. Il Figlio di Dio. Claudiana Editrice. 1950).
Il discorso apocalittico di Matteo 24 e 25 adempie la stessa funzione dell'apocalittica giudaica. Parla di una serie di avvenimenti futuri che culmineranno con la venuta d Gesù in gloria, ma il suo accento ricade sull'esortazione alla fedeltà, piuttosto che sulla rivelazione di segreti celesti. Ciò viene dimostrato non soltanto dalla quantità di spazio dedicata ad alcune parabole sull'attesa vigilante, ma anche dal gran numero di imperativi disseminati in tutto il discorso.

Esegesi
Il nostro testo può essere diviso in tre parti:
-       vv. 1-2. La distruzione del tempio
-       vv. 3-8. L'inizio dei dolori
-       vv. 9-14. Le persecuzioni

vv. 1-2. La distruzione del tempio
"1 Mentre Gesù usciva dal tempio e se ne andava, i suoi discepoli gli si avvicinarono per fargli osservare gli edifici del tempio. 2 Ma egli rispose loro: «Vedete tutte queste cose? Io vi dico in verità: Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata».
     Nel vangelo di Marco la domanda è posta da uno dei discepoli, mentre in Matteo sono i suoi discepoli a richiamare l'attenzione di Gesù sul tempio e sugli edifici circostanti. La curiosità dei discepoli si è accesa probabilmente quando Gesù nel tempio, al termine della lunga polemica con i suoi oppositori, scribi e farisei, ha detto: " Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta" (23,38), riferendosi o al tempio o a Gerusalemme o anche alla stirpe di Davide.  E in questo nostro testo Gesù rincara la dose con un'affermazione più esplicita: "Vedete tutte queste cose? Io vi dico in verità: Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata" (24,2). La forma è identica in Marco 13,2 e sostanzialmente anche in Luca 19,44.
La questione fondamentale, dunque, almeno in questi primi due versetti, non concerne la venuta del Messia nella gloria, ma la distruzione del tempio.
Perché Gesù profetizza la distruzione del tempio?
È molto probabile che Egli volesse attaccare il centro vitale della nazione giudaica, il luogo che il popolo riteneva la sede della presenza di Dio, e forse anche mettere fine al suo compito verso quel popolo che lo ucciderà.
Predire la distruzione del tempio equivaleva dunque a esporsi alla morte. Questo era successo già al profeta Geremia, che fu minacciato di morte quando nella sua profezia sul tempio disse: "Io tratterò questa casa come Silo [distrutta da tempo] e farò che questa città serva di maledizione presso tutte le nazioni della terra" (26,6).  E predire la distruzione del tempio significava decretare la fine di un tempo e l'inizio di un nuovo tempo. D'altra parte, nel momento in cui Gesù, che si considerava il Messia, veniva respinto dal suo popolo, il tempio, come luogo della presenza della grazia di Dio, non aveva più ragione di esistere.

- vv. 3-8. L'inizio dei dolori
3 Mentre egli era seduto sul monte degli Ulivi, i discepoli gli si avvicinarono in disparte, dicendo: «Dicci, quando avverranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine dell'età presente?»
4 Gesù rispose loro: «Guardate che nessuno vi seduca. 5 Poiché molti verranno nel mio nome, dicendo: "Io sono il Cristo". E ne sedurranno molti. 6 Voi udrete parlare di guerre e di rumori di guerre; guardate di non turbarvi, infatti bisogna che questo avvenga, ma non sarà ancora la fine. 7 Perché insorgerà nazione contro nazione e regno contro regno; ci saranno carestie e terremoti in vari luoghi; 8 ma tutto questo non sarà che principio di dolori.

3. La conversazione prosegue sul Monte degli Ulivi, che non è un luogo qualunque ma un luogo qualificato di avvenimenti escatologici (Zaccaria 14,4 profetizza la venuta di Dio su quel monte).
Due sono le domande rivolte a Gesù dai discepoli. La prima riguarda il quando della distruzione del tempio, la seconda intende conoscere quale sarà il segno che possa permettere di riconoscere la prossimità degli avvenimenti finali.
"Venuta" nel nostro testo è indicata col termine "parousìa", che è usato nelle epistole per indicare la "seconda venuta"del Signore. Nei sinottici si trova solo in questo capitolo.
La "fine dell'età presente" è un ebraismo che troviamo solo in Matteo (13,39.40.49;28,20) e richiama Daniele 12,4.13 (tempo della fine o fine [dei tempi]).

4.5. Gesù non risponde alla prima domanda e la mia impressione è che anche alla seconda non risponda in modo esaustivo visto che degli avvenimenti menzionati parli di "principio o inizio di dolori" (v. 8). Piuttosto, egli si preoccupa di esortare i suoi discepoli a guardarsi dai falsi cristi o da presunti "liberatori" (Atti 5,36-37 riferisce di Teuda e di Giuda il Galileo; 8,9 ci parla di Simone il Mago che seduceva con le arti magiche ma che si convertì e si battezzò alla predicazione di Filippo. E Flavio Giuseppe riporta il caso di un falso Messia che volle fondare dal Monte degli Ulivi il regno messianico (Bell. 2,262).

6.7. Al male interno prodotto dai falsi cristi, si aggiunge quello esterno di guerre e rumori di guerre (cioè di guerre vicine e lontane), carestie e terremoti. Sono flagelli che Gesù enumera seguendo la traccia della tradizione apocalittica. In Apocalisse 6,4.8.12 sono elencati con lo stesso ordine. Essi sono "principio di dolori", perché pur essendo già molte le tribolazioni, bisogna aspettarsi ancora di peggio.

- vv. 9-14. Le persecuzioni
9 Allora vi abbandoneranno all'oppressione e vi uccideranno e sarete odiati da tutte le genti a motivo del mio nome. 10 Allora molti si svieranno, si tradiranno e si odieranno a vicenda. 11 Molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno molti. 12 Poiché l'iniquità aumenterà, l'amore dei più si raffredderà. 13 Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato. 14 E questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo, affinché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; allora verrà la fine".

9. Il peggio che può colpire la comunità cristiana è rappresentata dalle avversità, dalle persecuzioni, dall'odio da parte di "tutte le genti", cioè da parte di tutti i popoli, dal mondo,  perché un mondo senza pace non tollera la presenza di chi predica e intende costruire la pace. Tacito, nei suoi Annali (XV:44), chiama i cristiani "odium generis humani", l'odio del genere umano [verso la chiesa].

10-11. Ma il peggio nasce all'interno della chiesa ed è rappresentano da scandali, tradimenti, odio, falsi profeti. Rispetto a quest'ultimi, Matteo nel Sermone sul Monte (7,15-20) aveva già ammonito i suoi lettori a essere vigilanti. I falsi profeti non sono persone che "fanno predizioni sbagliate per il futuro, ma coloro che rivendicano il diritto di esercitare la conduzione della chiesa, ma la cui vita non è conforme all'insegnamento etico di Gesù (7, 21-23)"(Douglas R.A Hare). Non solo la vita, ma anche l'insegnamento.

12. A causa di questa "iniquità" (anomia), infedeltà alla legge di Dio, l'amore si raffredderà. Più di qualsiasi altro pericolo, questa è la minaccia più grave per la chiesa, che senza il servizio e la pratica dell'amore non è nulla (I Cor. 13, 2).
La comunità dei credenti è dunque messa in guardia dai rischi di fenomeni degenerativi della vita cristiana insiti nel suo seno.

13. Per arginare il degrado della chiesa e giungere alla salvezza occorre perseverare, che significa rimanere al proprio posto per contrastare ogni pericolo, sopportare la persecuzione e altre prove senza rinunziare alla fede, ma anche persistere nell'amore (I Cor. 13,7: l''amore sopporta ogni cosa).  

14.  Nonostante tutta l'ostilità e l'odio che incontra, la chiesa riuscirà a predicare "questo evangelo del Regno" a tutti i popoli  nel mondo intero. "E allora verrà la fine", afferma Matteo. In questa precisazione, sembra che Matteo voglia offrire una spiegazione teologica al ritardo del ritorno del Signore che tante persone credevano imminente: il Signore tarda perché la chiesa deve prima completare la sua missione.
Anche noi, sapendo che ogni attesa è già compiuta con Gesù Cristo crocifisso e risorto, impegniamo la nostra vita nel servizio dell'evangelo con fedeltà e costanza, testimoniando  della grazia e della misericordia di Dio.


 Spunti di riflessione per la predicazione
Occorre cogliere bene il senso del discorso di Gesù perché, mentre i discepoli sono interessati a conoscere il "quando" e il "come" dei tempi della fine, la vera preoccupazione di Gesù è incentrata sul tempo presente, sui pericoli ai quali i discepoli sarebbero andati incontro, per prepararli ad affrontare il cammino cristiano con un serio impegno, con determinazione e con speranza.
     - Un primo insegnamento che cogliamo dalle parole di Gesù, quando afferma che del tempio non sarebbe rimasta pietra su pietra, è che tutto ciò che ai nostri occhi sembra sicuro, indistruttibile, immutabile deve essere rivisto con l'ottica della precarietà. Non c'è nulla di definitivo e stabile sulla terra. Tutto è mutamento, cambiamento. La nostra vita passa. Civiltà intere sono passate. Una generazione dopo l'altra è passata. A che cosa ci aggrappiamo, dunque? Qual è il fondamento di ogni nostra speranza? Già in altra occasione, Gesù aveva detto: " Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo…perché dov'è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore" (Mt. 6:19-21). E nel nostro cap. 24 dirà: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Mt. 24:35).
Il Salmista aveva detto che la vita dell'uomo è come l'erba, che "verdeggia la mattina, la mattina essa fiorisce e verdeggia, la sera è falciata e inaridisce" (Salmo 90:5-6).
     - Un secondo insegnamento di Gesù ci mette in guardia dal potere di seduzione sempre presente nella vita dell'uomo. Siamo sedotti dal desiderio di potere, di dominio, di supremazia, o molto più semplicemente di apparire, di essere qualcuno, addirittura di presentarsi come "il Cristo" o come altri "liberatori" che attraverso le guerre hanno inteso o intendono imporre un'ideologia o addirittura "esportare la democrazia".
     - Un terzo insegnamento è che occorre essere consapevoli che il cammino del credente è sempre contrassegnato da contraddizioni e da contrapposizioni. Anche all'interno della chiesa si possono levare falsi profeti, abili seduttori di anime semplici che minano i rapporti personali con la conseguenza che l'amore viene meno.
In una situazione di degrado e di deriva, soltanto chi persevera nella fede può sopravvivere ed essere salvato.
     - Un quarto insegnamento è che come credenti dobbiamo avere la consapevolezza che la nostra vita deve essere vissuta con l'intento di lavorare per l'avanzamento del Regno di Dio qui e oggi, nutrendo nel nostro cuore un sano sentimento di attesa di incontrare il Signore. La tensione di vivere tra il già e il non ancora rimane, ma un giorno sarà superata, quando "lo vedremo com'Egli è" (1 Gv. 3:2). Teologia dell'impegno e teologia dell'attesa devono convivere e mai prevalere l'una sull'altra. Scriveva il Past. Antonio Adamo: "La Chiesa del Signore è realtà di attesa e di annuncio, in cui le promesse sono vissute come vere e ogni giorno è breve come l'ultimo e lungo come il primo. La dimensione forte dell'essere della Chiesa sono la fede, la speranza e l'amore. Non si tratta di abbandonare il mondo né di sposarne i principi, ma di vivere con intensità il presente, attendendo con intensa passione le promesse. Nel tempo dell'Avvento ci fermiamo e ascoltiamo le promesse; facciamo silenzio e lasciamo parlare il Signore. Aspettiamo continuando con impegno il nostro viaggio, certi che il Signore saprà incontrarci come e quando egli vorrà. Nell'attesa pronunciamo e facciamo qualcosa di buono, di pacifico, di risanatore. Cerchiamo di essere segno della nuova umanità in Cristo".
                                                                                       
                                    Aldo Palladino


Bibliografia
Gunther Dehn. Il Figlio di Dio. Claudiana Editrice, 1950
Douglas R. A. Hare. Matteo. Claudiana srl. 2006
Julius Schniewind. Il Vangelo secondo Matteo. Paideia Editrice.2006
David Syme Russell. L'apocalittica giudaica. Paideia Editrice. 1991


13 novembre 2016

Romani 8, 16-25 La gloriosa speranza dei figli di Dio

Romani 8, 16-25
La speranza gloriosa dei figli di Dio

Predicazione di Aldo Palladino

16 Lo Spirito stesso attesta insieme con il nostro spirito che siamo figli di Dio. 17 Se siamo figli, siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere glorificati con lui.
18 Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo. 19 Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; 20 perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, 21 nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. 22 Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; 23 non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. 24 Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? 25 Ma se speriamo ciò che non vediamo, l'aspettiamo con a pazienza.

La domanda: "Come andrà a finire?"
Alcuni giorni fa mi è capitato tra le mani un libro degli anni novanta della Claudiana dal titolo "Quark, caos e cristianesimo", scritto da un docente di Fisica matematica all'Università di Cambridge, un certo John Polkinghorne, poi diventato un teologo anglicano. "È un libro lucido ed originale, per chi crede e chi non crede, che invita alla riflessione sul modo in cui procedono la scienza e la fede religiosa, ognuna nel proprio campo, in vista di un superamento di barriere e di schemi precostituiti, tipici del nostro tempo" (dalla presentazione del libro). Ciò che ha attirato la mia attenzione in questo libro è che l'autore nella parte finale si fa una domanda semplice ma sempre coinvolgente, una di quelle domande che ognuno di noi si è fatta chissà quante volte. La domanda è: "Come andrà a finire?". Si, "come andrà a finire", perché – egli dice – che il nostro universo, iniziato con il Big Bang, una grande esplosione iniziale, finirà con il Big Crunch, letteralmente una grande frantumazione. Tutta la materia dell'universo precipiterà in un crogiuolo cosmico e tutto finirà. Ma vorrei tranquillizzarvi. Questo non accadrà né oggi né domani, ma fra dieci miliardi di anni. Cosi dicono gli esperti.

La stessa domanda "Come andrà a finire" credo si possa intravedere anche nel testo biblico che abbiamo letto. Sono parole che l'apostolo Paolo rivolge ai credenti di Roma, a quelli del suo tempo e di tutti i tempi, annunciando che la storia della fede e della vita cristiana è segnata da una grande speranza: la vittoria finale di Dio. E questa vittoria porta con sé la manifestazione della gloria di Dio. I credenti – dice Paolo - in quanto figli di Dio sono eredi di Dio e coeredi di Cristo e dunque partecipano al destino di Cristo crocifisso e glorificato. I credenti percorrono lo stesso cammino di sofferenza di Gesù Cristo e a loro è promessa la partecipazione alla gloria di Cristo, alla gloria di Dio (16-17).
Così scriveva l'apostolo Paolo in un'altra sua lettera: "Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro, ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò pienamente" (1 Cor. 13,12). E qui in un certo senso riafferma con toni escatologici (la teologia delle cose ultime) che "la sofferenza del tempo presente non è paragonabile alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo" (18).
Anche l'evangelista Giovanni si è espresso con termini simili: "Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quand'egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com'egli è" (I Giov. 3,2).

Il credente tra sofferenza e fiducia in Dio
Avrete notato la contrapposizione tra "ora" e "allora". La divisione del tempo è chiara: ora la sofferenza, ma un giorno gloria, quella del mondo nuovo di Dio.
Questo è il messaggio di consolazione che Paolo rivolge ai credenti perseguitati a motivo della loro fede in Cristo e che l'evangelo indirizza ai poveri in spirito, agli afflitti, ai mansueti, ai misericordiosi, ai puri di cuore (Mt. 5,1-11), ai sofferenti per motivi di giustizia, a tutti coloro che in obbedienza a Dio hanno scelto di rifiutare ogni compromesso con il male, a chi rischia la propria vita come offerta di sacrificio per la causa della verità.
Nelle parole di Paolo c'è una certezza di fede di chi alza la testa e guarda avanti senza giocherellare con mille ipotesi e con tanti dubbi, perché crede profondamente che Dio è Dio e che i suoi disegni di salvezza e di redenzione di questa umanità non potranno essere bloccati o fermati. Ostacolati si, ma non bloccati. Anche il cammino del credente, pur contrassegnato da contraddizioni e incoerenze, potrà subire rallentamenti, momentanee battute d'arresto, ma non potrà essere fermato, perché attraverso i secoli la fede vince, perché riposta e fondata nel Signore Gesù Cristo, che con la sua risurrezione ha vinto il mondo (Giov. 16,33), le potenze del male, compresa la morte.

La creazione tra sofferenza e attesa di liberazione
Ma in questo testo l'originalità del pensiero dell'apostolo Paolo non si limita soltanto alla sofferenza nella dimensione dell'esistenza umana ma include anche la sofferenza della creazione, del creato animato e non animato.
Quali sono le cause di tale sofferenza? Le cause che rinveniamo nel testo sono due:
  1. la creazione è stata sottoposta alla vanità (v. 20);
  2. la creazione è schiava della corruzione (v. 21).
E la conseguenza è che la creazione geme ed è in travaglio (v.22).

1.     la creazione è stata sottoposta alla vanità (v. 20).
Vale a dire che essa non è eterna. Oggi è, domani non sarà più. Tutto è provvisorio, fugace, passeggero, tansitorio. Vi è in essa un senso di incompiuto, d'imperfetto, di vuoto. Le generazioni si susseguono e passano, le civiltà sorgono e tramontano, si costruisce e si demolisce; le ricchezze vengono accumulate  e alla fine si dissolvono. Il tempo passa e consuma ogni cosa.
L'Ecclesiaste, nell'Antico Testamento, dopo aver considerato i tempi, i piaceri, la vita degli uomini e del creato diceva "Vanità delle vanità, tutto è vanità" (Eccl. 1,2),
      
2.     la creazione è schiava della corruzione (v. 21).
Cioè schiava della corruzione dell'uomo che con le sue scelte nefaste e la sua brama di autonomia e di potere, che la Scrittura chiama peccato, si è sottratto alla relazione con Dio e ha trascinato il creato nel suo stesso destino. Così, l'uomo da quel momento ha dovuto procurarsi il frutto con affanno della terra e a mangiare il pane con sudore del suo volto (Gen. 3,17-19). Ed è per questo che:
3.     la creazione geme ed è in travaglio (v. 22),
espressione che ricorda la donna che soffre le doglie del parto ma che prova una gioia infinita alla nascita della sua creatura. In questa metafora sta tutta la storia umana, storia di sofferenza e di lotta alla ricerca del superamento della sua finitudine e di appagamento del desiderio di felicità che da sempre abita l'umano.
 
La creazione geme ed è in travaglio. Oggi più che mai possiamo dare un nome ai sospiri, ai gemiti e al travaglio della creazione. L'uomo negli ultimi decenni ha perpetrato ogni tipo di violenza sulla natura per trovare sostegno e vita. Ha distrutto vaste aree della terra, ha tagliato boschi e foreste, ha distrutto migliaia di specie di animali e vegetali, ha avvelenato fiumi, laghi, mari ed oceani, ha inquinato terra e aria. Nella sua follia ha strappato i raccolti dalla terra e poi li ha distrutti per mantenere alti i prezzi sul mercato, mentre milioni di persone morivano e muoiono di fame.  Ha usato pesticidi che producono malattie mortali. Ha distrutto popoli e tribù, ha creato materie pericolose. E potremmo continuare a fare un lungo elenco delle devastazioni, degli abusi, delle violenze contro natura.

Fratelli e sorelle, Il cuore dell'uomo non troverà guarigione e riposo finché non avrà ristabilito il suo giusto rapporto con Dio. Uscire dalla vanità, dalle false illusioni, liberarsi dallo spirito di onnipotenza e ricercare Dio, il grande Assente di questa società, questo è l'unico modo per ritrovare se stessi, la propria umanità e riscoprire una vita di senso.
Dio non deve essere il superfluo della nostra vita, né il passatempo che riempie il tempo libero per gente per bene e non ha nella nostra vita una funzione ornamentale e decorativa. No, Dio è Dio, creatore dei cieli e della terra, il Signore che ha autorità su tutto e su tutti, al quale dobbiamo dare lode e gloria già fin da ora.

La salvezza tra il "già" e il "non ancora"
Nel nostro testo, alla vanità e alla schiavitù della corruzione della creazione, Paolo oppone:
a)     la liberazione della creazione dalla schiavitù per entrare nella libertà dei figli di Dio (v. 22); che con altre parole significa che la natura, che segue il destino dell'uomo, aspetta di  godere della libertà donata ai figli di Dio, libertà che è la condizione per servire responsabilmente in questo mondo e per annunciare il nuovo mondo che viene.

b)    la speranza della redenzione (v. 23).

Speranza, redenzione, ci parlano dell'azione di Dio per noi. Egli non se ne sta seduto solitario su un trono altissimo al di sopra del creato, ma è presente nella creazione partecipe dei suoi timori e dei suoi gemiti. La croce innalzata sul Golgota è il segno evidente dell'intervento di Dio nella storia dell'umanità e la risurrezione di Gesù Cristo dalla tomba l'emblema di una vittoria già prefigurata e anticipo di quel Regno di pace e di giustizia oggetto della nostra speranza.
Certo, la fede non garantisce l'immunità dalla sofferenza ma ci permette di affrontare le avversità e le intemperie della vita, la malattia, le disgrazie, il lutto e la morte non più da soli ma con la solidarietà e la consolazione di Gesù Cristo, nostro Signore, Fratello e Amico di viaggio.
Per la sua opera noi credenti abbiamo "già" gustato la salvezza anche se siamo "ancora" in attesa della piena realizzazione delle promesse annunciate.
Questa attesa, Fratelli e Sorelle, non deve essere un alibi per rifugiarci nel futuro e per disinteressarci dell'oggi. L'apostolo Paolo con le sue parole non ha voluto estraniarci dal mondo, ma ci ha dato parole di speranza per il cammino operoso e paziente del tempo presente. La sua "teologia dell'attesa" non è mai astrazione dalla realtà quanto l'affermazione della sua "teologia dell'impegno" in cui noi credenti siamo chiamati ad essere responsabilmente precursori e messaggeri del Regno di Dio che viene.
Alla domanda "Come andrà a finire", noi oggi rispondiamo additando la Croce, la tomba vuota e il Cristo Risorto, che sono il fondamento di tutta la nostra vita, di quella che stiamo vivendo e di quella che ci è stata promessa. Amen.

                                                                                               Aldo Palladino



Predicazione nel Tempio valdese di Torino
C.so Vittorio Emanuele II, 23
Domenica 13 novembre 2016  

22 agosto 2016


I Giovanni 4, 7-12

"L'amore, la vita di Dio in noi e tra noi"

Predicazione di Aldo Palladino


Il testo biblico
"7 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. 8 Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. 9 In questo si è manifestato per noi l'amore di Dio: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo affinché, per mezzo di lui, vivessimo. 10 In questo è l'amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati. 11 Carissimi, se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.12 Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi".

Un sociologo e filosofo contemporaneo, Zygmunt Bauman, ha affermato che la società contemporanea è diventata "liquida" perché i legami sociali, i rapporti tra gli individui, che in epoca pre-moderna erano solidi e stabili - e solida era la struttura della società -, oggi tendono sempre più a dissiparsi, a disgregarsi. Questo "processo di liquefazione" coinvolge la comunità in senso lato, i rapporti sociali, le strutture sociali, il lavoro, il pensiero. Non c'è nessun valore stabile, tutto è precario e relativo, tutto è messo in discussione. Così, secondo Bauman, società liquida e pensiero liquido producono un individuo afflitto dalla solitudine, chiuso in se stesso, proteso soltanto al soddisfacimento di piaceri egoistici ed egocentrici, senza fiducia né compassione verso l'altro, svuotato interiormente e disorientato. E in questa società in continuo movimento, che cambia dall'oggi al domani, l'uomo è pervaso da un senso di instabilità e di impotenza, perché nella sua solitudine sente di essere incapace di cambiare questo stato di cose.
Sono d'accordo con l'analisi di Bauman perché rispecchia realmente i comportamenti dell'uomo di oggi, la nostra vita, la nostra morale. Ma sono convinto che siamo arrivati a questa situazione perché abbiamo estromesso il Signore dalla nostra vita, perché abbiamo dimenticato di cibarci dell'unico vero Pane che nutre e sazia, Cristo Gesù, e la sua parola.
Come ci poniamo noi cristiani di fronte ad una società costruita su queste basi? Quale via di uscita abbiamo per non cadere nella trappola di una società del modello "usa e getta"? E quale tipo di società intendiamo costruire come cristiani? Quali uomini e donne vogliamo che ci siano oggi e nel futuro?
Una risposta ce la fornisce il nostro testo: "Carissimi, amiamoci gli uni gli altri". 
Amarsi gli uni gli altri è un'esortazione che ci arriva da questa parola dal tono pastorale della I lettera di Giovanni, scritta verso la fine del I secolo, vale a dire circa 2000 anni fa, agli albori del cristianesimo. Le comunità nate dalla predicazione dell'evangelo erano minacciate nella loro fede e nella loro stessa esistenza da oppositori sorti nel seno della stessa chiesa che Giovanni definisce anticristi (I Gv. 2,18 ss.) o falsi profeti (I Gv. 4,1 ss..) o seduttori (II Gv. 7), persone che svuotavano l'evangelo di Gesù Cristo predicando un anti-evangelo che negava soprattutto l'incarnazione di Dio in Cristo Gesù e la salvezza mediante la croce e la potenza della risurrezione.
A queste e ad altre dottrine eretiche, in un contesto di divisioni, di contrapposizioni e di dure lotte ideologiche e dottrinali, che minavano la stessa esistenza delle comunità, l'apostolo Giovanni rispose con estrema energia esponendo le verità fondamentali dell'evangelo e chiamando le comunità a testimoniare la propria fede in Gesù Cristo, a restare uniti e a condurre una vita leale, onesta e coerente con la fede professata, ma soprattutto ad amarsi gli uni gli altri.
Perché amarsi gli uni gli altri? Giovanni ce lo spiega. Egli dice che l'amore è da Dio, "non nel senso che ogni amore proviene da Dio, ma nel senso che l'amore è l'unico modo di vivere di chi è nato da Dio, cioè di chi, per la fede, ha cominciato una nuova esistenza radicata nella realtà di Dio rivelata in Cristo.
Per un cristiano, vivere e amare sono la stessa cosa.
Un cristiano non può vivere senza amare: non è che prima sia un cristiano e poi anche uno che ama, ma è cristiano solo in quanto ama.
Essere cristiano significa amare.
Perciò dove non c'è amore non c'è conoscenza di Dio, quindi non c'è comunità cristiana.
Dove c'è comunità cristiana non può non esserci amore.
E Giovanni continua dicendo che chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
L'amore - non importa se amore dei fratelli, o del prossimo, o dei nemici, o di Dio- inteso non come atto occasionale e straordinario ma come comportamento quotidiano, come stile e contenuto della vita, esprime la realtà della nuova nascita (è nato da Dio) e della comunione con Dio (conosce Dio)" (dal Nuovo Testamento annotato – Claudiana).
L'amore è il termometro che misura la temperatura della nostra relazione con Dio ed è il test che consente a ciascuno di noi di comprendere a fondo la nostra natura, chi siamo e il senso della nostra vita.
Dio è amore. Dio è agape.
Quest'affermazione di Giovanni esprime il cuore dell'Evangelo. In tutta la Scrittura, l'amore è presentato con quattro espressioni:
come eros,  quando ci descrive l'amore che vuole possedere l'altro o l'altra;
come philia, quando ci parla dell'amicizia tra persone;
come storge (storghé), quando ci descrive l'amore parentale, genitori-figli e tra i membri della stessa famiglia;
ma quando ci parla dell'amore di Dio e quello che si vive all'interno di una comunità viene definito col termine agape.
Dio è Amore, Agape, ci indica come Dio si è manifestato verso l''intera umanità.
Dice il vangelo di Giovanni: "Dio ha tanto amato il mondo, l'umanità, che ha dato il suo Unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna" (Gv. 3,16).
Nella sua rivelazione Dio si è manifestato come amore, come agape,  in quanto ha mandato suo Figlio per sconfiggere il peccato e per donarci la vera vita per mezzo di Lui. L'iniziativa di Dio non è concepita in astratto ma è basata sul concreto agire storico nella venuta e nella morte di Gesù Cristo.
Fratelli e sorelle, poiché Dio ci ha amati oltre ogni attesa e misura umana, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri, perché il vero rapporto con Dio si realizza quando amiamo la nostra sorella o il nostro fratello, quando amiamo il nostro prossimo, quando amiamo i nostri nemici.
Dobbiamo infatti ricordare le parole rivoluzionarie e di rottura con la mentalità del suo tempo che Gesù ci ha lasciate:« Voi avete udito che fu detto: "Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico". Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli...se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt. 5, 44-48).
Lutero nella Sua opera "Libertà del cristiano" ha scritto: "Un cristiano vive non in se stesso, ma in Cristo e nel suo prossimo: in Cristo per la fede, e nel suo prossimo per l'amore".

Dobbiamo ammettere, dopo secoli di cristianesimo, che questa esortazione all'amore resta sempre la sfida più impegnativa e la più difficile da affrontare, è la pietra d'inciampo su cui si cade molto facilmente, perché purtroppo il terreno sul quale noi chiese cristiane ci muoviamo è contrassegnato dalla realtà della presenza del peccato nella nostra vita, ma ancor più da una crescente secolarizzazione che impedisce qui ed ora a ciascuno di noi l'approfondimento di un continuativo rapporto d'amore con Dio e una reale nostra consacrazione al Signore come servi e testimoni della sua grazia.
Si, è vero, siamo credenti impegnati in tante attività della chiesa, chi in una commissione, chi in un'altra dove mettiamo a disposizione i nostri talenti o le nostre capacità, così da far apparire la nostra comunità una comunità attiva, colta, conosciuta in ambito cittadino per la sua aperta laicità, per la sua diaconia, per la sua predicazione, per la sua storia di secoli di sofferenze e persecuzioni subite, ecc. ecc. eppure abbiamo bisogno di sperimentare in modo più forte e in maniera palpapile quella via che l'apostolo Paolo chiama "la via per eccellenza"(I Cor. 12,31b), la via maestra di quell'amore senza il quale non siamo nulla.
È dunque possibile che la chiesa abbia tanti carismi, tanti ministeri, tanta libertà, tanta teologia, tante attività eppure abbia bisogno di realizzare la pratica dell'agàpe, di quell'amore fraterno, come di un cammino da percorrere in compagnia e in piena comunione di fede con altri credenti e non di un insegnamento da dare. Nella Bibbia non troveremo mai l'invito a predicare o insegnare l'amore, ma a camminare nell'amore. Perché il comandamento nuovo che Gesù ci ha dato non è l'amore predicato ma quello praticato, come viene ben rappresentato nella parabola del Buon Samaritano (Lc. 10, 25-37) in cui, come sapete, tutti avevano forse dei buoni motivi per non non prestare soccorso a quell'uomo aggredito, ferito e depredato dai briganti, ma il Buon Samaritano giudicò prioritario l'aiuto e la cura di quell'uomo e pospose ogni suo interesse privato.
I testi biblici che abbiamo letto sono certamente "forti", disarmanti oltre che provocatori, perché stimolano la nostra riflessione e mettono in gioco il nostro modo di essere cristiani nella comunità, nella società, nei rapporti sociali, anche in quelli personali e familiari.
La sfida della nostra fede, oggi, è promuovere ogni iniziativa per una nostra crescita in un servizio d'amore per gli altri. È su questo terreno che si gioca la credibilità  e, forse, la stessa esistenza delle nostre chiese.
  
                                                                          Aldo Palladino                            

Predicazione nel Tempio Valdese di Torino
Domenica, 21 agosto 2016


27 maggio 2016



Romani 11, 25-36

Scheda esegetico-omiletica 

a cura di Andrea Mela


Premessa
     Il nostro lezionario 2016 "Un giorno una parola" (Ed. Claudiana) propone la pericope di Rm 11, 32-36 mettendo il v. 32 solo tra parentesi cioè, mi pare di capire, come opzionale.  L'accento andrebbe quindi posto tutto sull'inno contenuto nei vv. 33-36.  Ma a proposito del v. 32 "Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti", Karl Barth, nel suo trattato su "L'Epistola ai Romani", scrive[1]:
« ... in queste parole si esprime l'assioma tremendamente inquietante in cui si dovrebbe trovare la chiave dell'intera Epistola ai Romani (e non soltanto dell' Epistola ai Romani) … [Questo passo] è il metro a cui tutto deve essere misurato, il peso a cui tutto deve essere pesato. Esso è, per ogni lettore o uditore personalmente, il criterio della doppia predestinazione di cui vuole evidentemente chiarire il significato ultimo. Si deve intendere in senso pregnante il divino "rinchiudere" di cui qui si parla e in senso pregnante la divina "misericordia"; in senso pregnante il primo e in senso pregnante il secondo pronome "tutti". … In questa dichiarazione si rivela il Dio nascosto, sconosciuto, inconcepibile, a cui nulla è impossibile, Dio il Signore, che come tale è il nostro Padre in Gesù Cristo. … Qui l'oggetto della fede ... . Qui l'essenza del cristianesimo … . La chiesa ha una speranza. Questa. Non ne ha alcun'altra. Potesse comprendere questa! »
Davanti a queste parole autorevoli penso che le parentesi debbano cadere. Proverei dunque a partire da qui: l'inno è ciò che naturalmente e spontaneamente consegue e funge da corona lirica al lungo discorso sul rapporto tra il vangelo e gli Israeliti che inizia al cap. 9 e culmina con la sintesi teologica che si trova nei vv. 25 – 32 del capitolo 11.  Non potendo leggere tre interi capitoli della lettera credo sia opportuno ricordare almeno questi 8 versetti.
25 Infatti, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi: un indurimento si è prodotto in una parte d'Israele, finché non sia entrata la totalità degli stranieri; 26 e tutto Israele sarà salvato, così come è scritto:   
                                   «Il liberatore verrà da Sion.
27                              Egli allontanerà da Giacobbe l'empietà;
                e questo sarà il mio patto con loro,
                quando toglierò via i loro peccati».
28 Per quanto concerne il vangelo, essi sono nemici per causa vostra; ma per quanto concerne l'elezione, sono amati a causa dei loro padri; 29 perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili. 30 Come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio, e ora avete ottenuto misericordia per la loro disubbidienza, 31 così anch'essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch'essi misericordia. 32 Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti.
33      Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!
            Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie!
34      Infatti          «chi ha conosciuto il pensiero del Signore?
                                   O chi è stato suo consigliere?
35                              O chi gli ha dato qualcosa per primo,
                                   sì da riceverne il contraccambio?»
36      Perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. 
            A lui sia la gloria in eterno. Amen.


Note esegetiche
25-26a – mystèrion: nell'uso paolino questa parola indica il disegno salvifico di Dio che si è rivelato con l'avvento di Cristo ma rimane sempre un "mistero"[2] ossia una realtà superiore ed inaccessibile all'intelletto umano.  Qui però indica un aspetto particolare di questo disegno cioè il ruolo di Israele.
Indurimento (pòrosis). Nel primo testamento la resistenza alla volontà di Dio, definita (a partire da Esodo 4, 21[3]) appunto come l'indurirsi del cuore, è molto spesso (come lo è anche qui) il risultato della stessa volontà di Dio.
In una parte di Israele. Questa parzialità si contrappone alla totalità  (plèroma) degli stranieri ed al "tutto Israele" (pas Israèl) del v. 26[4]. E' importante che alla salvezza di tutti gli stranieri sia accostata la salvezza piena del popolo eletto: non solo "il resto", ma il popolo in quanto tale, l'Israele complessivo.

26b-27 – «Il liberatore verrà da Sion. … "Si tratta di una citazione composta che riprende quasi esattamente la versione greca (LXX) di Isaia 59, 20-21a, seguita da una frase ripresa da Isaia 27,9. La citazione originale di Isaia 59, 20 potrebbe essere riferita a Dio stesso, ma ci sono letture rabbiniche che la leggono in riferimento al Messia ed è probabile che Paolo la comprendesse in questo modo"[5]. In ogni caso l'intento di Paolo è quello di evidenziare la natura di questa liberazione: il perdono misericordioso dei peccati di Israele.

28-29           – nemici per causa vostra / amati a causa dei loro padri. L'essere nemici (disubbidienti) è per Israele un dato temporaneo ed è a vantaggio dei pagani perché, respinti dai Giudei, i ministri della parola sono stati sospinti a predicare l'evangelo fra i gentili. L'essere amati è invece un dato permanente che resta inalterato anche nel tempo della "inimicizia" perché si fonda sulla causa prima di ogni cosa: l'amore e la fedeltà di Dio[6]irrevocabili sono infatti i suoi doni e la sua chiamata (klèsis).

30-31 – I due versetti formano un parallelo perfetto tra le sorti dei due popoli. E' notevole che la disubbidienza (apèitheia) degli Israeliti, da un lato, e la misericordia (èleos) offerta ai pagani, dall'altro, siano definiti entrambi come strumenti di cui Dio si serve per il fine ultimo che è la salvezza di tutti[7].

32 – Dio infatti ha rinchiuso tutti (synèkleisen ... tus pàntas).
L'aoristo indica un avvenimento puntuale ed unico: il versetto fornisce la necessaria spiegazione dei due precedenti. Tutta l'umanità è prigioniera della propria disubbidienza: questo è un dato di fatto di fronte al quale si pone la misericordia divina che, sola, può e desidera ridare a tutti gli esseri umani la libertà. Cranfield osserva che se da un lato questo doppio "tutti" potrebbe orientare verso un universalismo dogmatico, d'altro lato la contrapposizione fra la prima parte della frase (la  constatazione) e la seconda (la manifestazione di intenti) spinge ad essere più cauti.

33-36  – Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!
Questa pericope ha la forma di un inno articolato in 4 strofe, ciascuna corrispondente ad un versetto. L'insieme presenta un carattere sapienziale. I tre concetti di ricchezza (plùtos),  sapienza  (sofìa) e conoscenza (gnòsis) del v. 33 vengono ripresi in ordine inverso dalle domande dei vv. 34-35.  Il v. 34 ricalca il testo della LXX di Isaia 40, 13; la prima domanda è riferita alla  conoscenza, la seconda alla sapienza[8]. Il v. 35 riecheggia Giobbe 41, 3[9] e richiama la smisurata ricchezza dei doni di Dio.
Lo stile letterario di 36a potrebbe riflettere un uso della tradizione stoica ma qui Paolo, ben lontano da ogni forma di panteismo, afferma che quel Dio che agisce in Cristo per la salvezza dell'uomo, è lo stesso Dio creatore, reggitore, sovrano e punto finale di ogni cosa.
Da questa affermazione nasce la dossologia conclusiva di 36b che è invece di estrazione giudaica.
Al centro della preghiera di Paolo, il cui impatto emozionale sembra rispondere all'apertura dolorosa del tema (in 9, 1-5), ritroviamo il mistero esplicitato ai vv. 25-26 ma ora espresso in forma di meraviglia e di lode: Dio mette in atto un dinamismo prodigioso che agisce nel lungo termine a beneficio di tutta la sua creazione e attrae l'umanità intera nel flusso del suo amore.


Breve inquadramento teologico
La domanda a cui Paolo cerca di dare risposta è la seguente: «Israele che non ha riconosciuto Gesù come Figlio di Dio e come Messia, è stato estromesso dalla salvezza?». E' una domanda seria e difficile.
Se si risponde di sì, che Israele è fuori dalla salvezza, allora l'elezione che Dio ha dato a Israele  è decaduta e ora passerebbe ai cristiani, essi diventerebbero il popolo eletto, il nuovo Israele e Dio avrebbe rinnegato il vecchio Israele.
Se si risponde di no, che Israele è e resta popolo di Dio, allora che ruolo avrebbero i cristiani nel suo progetto di salvezza?
Per uscire da questa contraddizione Paolo ricorre al concetto di "mistero". La ragione umana si può solo inchinare di fronte all'agire inatteso e "ininvestigabile" di Dio. L'apostolo non ricorre ad una rivelazione particolare: gli basta credere sia all'elezione di Israele, sia al Vangelo, per credere anche alla conversione ed alla salvezza finale del popolo eletto. La rivelazione di Gesù Cristo compie la promessa fatta ad Abramo e non può essere intesa senza di  essa. Questa fede diventa poi anche un appello ai pagano-cristiani a rifuggire dalla tentazione di ergersi a sostituti di Israele nel progetto divino.
In sostanza Romani 11, 25-36 riflette (come tutta la sezione 9 - 11) il travaglio interiore di Paolo nella sua condizione di fariseo zelante divenuto apostolo dei gentili ma libera un forte messaggio di fiducia per il presente e di speranza per l'avvenire.

Spunti per la predicazione
Certo non si può eludere il tema del rapporto tra Israele e "noi" ma credo che sia preferibile  evitare la tentazione di attualizzare il testo in senso geo-politico: una cosa è il moderno stato di Israele, altra cosa è l'ebraismo (compreso quello moderno). A mio avviso occorre tenere ben distinte le due dimensioni malgrado i forti legami che uniscono le comunità ebraiche sparse nel mondo con "Eretz Ysrael"[10].
Mi sembra che nel nostro brano ci siano due parole che possono orientare la predicazione: la prima è "tutti" (v. 32). Questa parola risuona già nella promessa di Dio ad Abramo: «in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen. 12: 3) e ritorna più volte anche negli scritti[11].
Dio non fa distinzioni su base etnica, culturale o religiosa ma percorre strade a noi sconosciute per benedire (salvare) il genere umano nel suo complesso. Il Signore tratta tutti noi per quello che siamo, con la nostra parzialità, la nostra finitezza, il nostro peccato, affinché nei confronti di tutti si manifesti la sua misericordia, la sua grazia e il suo amore. A questo riguardo Molti studiosi[12] ci diffidano dal pensare che Paolo insegni una salvezza universalistica, cioè che tutti siano salvi quasi "automaticamente" per mezzo di Gesù Cristo, anche coloro che non credono in lui o addirittura i malfattori. Certo non c'è nessun automatismo e soprattutto (come dice Paolo) nessuna possibilità di indagare la libertà di Dio; però qui  l'apostolo dei non ebrei, vuole ricordare loro che non hanno alcun motivo di sentirsi superiori  per aver abbracciato la nuova fede: quanto a disubbidienza e quanto a misericordia siamo tutti sullo stesso piano.
La seconda parola è "mistero": questo è il tema dell'inno conclusivo: il mistero di Israele diventa metafora del mistero di Dio. la sapienza di Dio può trasformare il male in bene per fare uscire tutti dalla disubbidienza. L'obbedienza è la misura della vera fede.  Dio non chiede il permesso di nessun uomo, di nessuna chiesa, di nessuna teologia per essere misericordioso. L'inno di Paolo è un canto di ammirazione e di sbalordimento. La Scrittura rivela la volontà di Dio, ma qui la Scrittura stessa rivela ciò che ci può soltanto stupire. Allora Paolo ferma per un momento i suoi ragionamenti, la sua "razionalità" e canta il mistero di Dio che si è rivelato ma che tuttavia rimane al di fuori di noi.
Forse anche noi ogni tanto avremmo bisogno di fermare per un momento la nostra razionalità e tornare ad essere capaci di meravigliarci di fronte al mistero. Il messaggio cristiano annuncia una verità che non è evidente e che non non si trova come un'idea già presente nel cuore dell'uomo. Il Vangelo ci rivela cose che non avremmo potuto immaginare nè desiderare; tuttavia questa rivelazione, questa verità che ci supera, può essere contemplata e ammirata. Dio ha pensato l'opera della salvezza prima che noi ci fossimo e l'ha portata a compimento per noi e malgrado noi. E' un'opera soltanto sua. Solo quando si comincia ad avere una percezione della profondità infinita della sapienza di Dio, ci si può rendere conto di quanto poco sappiamo e di quanto, invece, dobbiamo essere grati al Signore.
Un'ultima considerazione: se "l'indurimento" del cuore umano può a volte corrispondere alla volontà di Dio, oggi, diversamente da Paolo, noi ci troviamo in un'epoca di indurimento generalizzato che non riguarda più Ebrei o non Ebrei ma coinvolge tutti i popoli e in particolare il nostro occidente. Oggi il rifiuto di Israele di riconoscere la messianicità di Gesù non sorprende né scandalizza i cristiani i quali, anzi, ora trovano del tutto normale che ciò sia storicamente avvenuto e che tuttora perduri, nè gli Ebrei vedono nel cristiano necessariamente un nemico.
Intendo dire che forse si dovrebbe provare a spostare il discorso dall'ottica del rapporto fra Giudei e cristiani, entrambi ormai minoranze (seppure consistenti) in una società largamente secolarizzata, a quello fra credenti e non-credenti (uso questo termine solo per brevità). Il cambiamento radicale che si è prodotto con l'allontanamento di una parte consistente dell'umanità dalla sfera religiosa non potrebbe forse essere letto come uno dei sentieri misteriosi che Dio percorre "per far misericordia a tutti" ?

Testi di appoggio:  Salmo 145, 9-21;   Matteo 16, 15-20.

Testi utilizzati:
  • Karl Barth, L'Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Feltrinelli (MI), 1962.
  • Karl Barth, Breve commentario all'epistola ai Romani, Queriniana (BS), 1985.
  • C. E. B. Cranfield, La lettera di Paolo ai Romani (Capitoli 9-16), Claudiana (TO), 2000.
  • Giovanni Torti, La lettera ai Romani, Paideia Ed. (BS), 1977.
  • Franz J. Leenhardt, L'épitre de Saint Paul aux Romains,  Délachaux et Niestlé, Neuchatel (CH), 1957.
  • Paul J. Achtenmeier, Romani, Claudiana (TO), 2014.
  • Henri Piguet, Romains 11, 25-36: Le salut d'Israël, In: "Lire et dire" N. 62 (4/2004).
  • Paul Althaus, La lettera ai Romani, Paideia Ed. (BS), 1970.
  • Frederick F. Bruce, L'Epistola di Paolo ai Romani, Edizioni G.B.U. (Roma), 1979.
  • Giorgio Tourn, La predestinazione nella Bibbia e nella storia – una dottrina controversa, Claudiana (TO), 1978.


[1]   Karl Barth, L'Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Feltrinelli, 1962, pag. 404
[2]   Barth sostiene che nell'accezione di Paolo il termine mistero può equivalere a quello che noi chiamiamo paradosso.
[3]   Il SIGNORE disse a Mosè: «Quando sarai tornato in Egitto, avrai cura di fare davanti al faraone tutti i prodigi che ti ho dato potere di compiere; ma io gli indurirò il cuore ed egli non lascerà partire il popolo.
[4]   In relazione al ristabilimento finale dell'alleanza cfr. Malachia 4,4-6:  «Ricordatevi della legge di Mosè, mio servo,
     al quale io diedi sull'Oreb, leggi e precetti, per tutto Israele. Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del SIGNORE, giorno grande e terribile. Egli volgerà il cuore dei padri verso i figli, e il cuore dei figli verso i padri, perché io non debba venire a colpire il paese di sterminio».
[5]   Così Cranfield;  Barth nel suo "Breve commentario") vi legge anche un richiamo a Geremia 31, 31-34.
[6]   Cfr Deuteronomio 7, 7 s.
[7]   La costruzione del testo greco del v. 31 presenta notevoli difficoltà di interpretazione.  La traduzione di G. Torti lo rende come segue:  "... così ora essi [gli Israeliti] hanno rifiutato l'obbedienza di fronte alla misericordia accordata a voi per ottenere a loro volta misericordia ".    La TOB traduce: " … allo stesso modo anch'essi ora hanno disobbedito, in seguito alla misericordia usata verso di voi, affinché siano ora anch'essi oggetto della misericordia"  e commenta: la difficile costruzione di questa frase riflette la complessità del rapporto di causalità che Paolo stabilisce tra la storia degli uni e quella degli altri.
[8]   Per il giudaismo la sapienza è insita nel pensiero di Dio e lo assiste nella creazione. Cfr Proverbi 8, 22: 
     "Il SIGNORE mi ebbe con sé al principio dei suoi atti,prima di fare alcuna delle sue opere più antiche."
[9]   Gb 41, 3 "Chi mi ha anticipato qualcosa perché io glielo debba rendere?"
[10] Su "Lire et dire" N. 62 (4° trimestre 2004) si legge una proposta di predicazione su Rm 11, 25-36 di  Henri Piguet (pastore della chiesa riformata in Svizzera) in cui si definisce lo stato di Israele "guerriero, arrogante, tentacolare … violento della violenza peggiore, quella che crede di potersi fondare su qualche passo biblico staccato dal contesto" e prosegue: "La vittima è diventata carnefice. Per tutta una generazione di cristiani presso di noi, Israele è come un amore deluso" (traduzione mia). Anche se l'autore tenta di separare quelle che ai suoi occhi sono le nefandezze dello stato israeliano dal debito che "noi" abbiamo con l'ebraismo, mi auguro di non dover mai ascoltare giudizi così sommari dai pulpiti delle nostre chiese: il conflitto arabo-israeliano è cosa ben più seria e complessa.
[11] Cfr Salmo 145, in particolare v. 14: Il Signore sostiene tutti quelli che cadono e rialza tutti quelli che sono curvi. 
     V. 18: Il Signore è vicino a tutti quelli che lo invocano in verità.
[12] Ad es. P.  Althaus (pag 220): "tutti" non significa tutti i singoli uomini ma le due parti del genere umano, i Giudei e i pagani. … [Paolo] prospetta per l'umanità una duplice possibilità nel giudizio finale … (cfr 2 Tess. 1, 6 ss.).