Translate

26 marzo 2015


Marco 10: 35–45
"Non per essere serviti ma per servire"



Predicazione del Past. Paolo Ribet





Il testo biblico
35 Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, si avvicinarono a lui, dicendogli: «Maestro, desideriamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36 Egli disse loro: «Che volete che io faccia per voi?» 37 Essi gli dissero: «Concedici di sedere uno alla tua destra e l'altro alla tua sinistra nella tua gloria». 38 Ma Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete voi bere il calice che io bevo, o essere battezzati del battesimo del quale io sono battezzato?» Essi gli dissero: «Sì, lo possiamo». 39 E Gesù disse loro: «Voi certo berrete il calice che io bevo e sarete battezzati del battesimo del quale io sono battezzato; 40 ma quanto al sedersi alla mia destra o alla mia sinistra, non sta a me concederlo, ma è per quelli a cui è stato preparato». 41 I dieci, udito ciò, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42 Ma Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che quelli che sono reputati prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio. 43 Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; 44 e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti. 45 Poiché anche il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti».

1.- Durante il viaggio sulla via verso Gerusalemme, per la terza volta in poco tempo, Gesù annuncia la sua passione (10, 32-34). Nel suo discorso, dopo aver descritto l'umiliazione e la morte che dovrà subire, egli pronuncia però una parola che evidentemente fa scattare qualcosa nei discepoli: «dopo tre giorni il Figlio dell'uomo risorgerà». Resurrezione: è una parola magica, che evoca per i discepoli degli orizzonti di gloria, nuove realtà non più legate alla limitatezza umana, ma all'onnipotenza di Dio. Questi ragazzi (quali dovevano essere i discepoli), pieni di un'attesa febbrile di quel Regno di Dio che essi immaginavano come un evento glorioso, devono aver pensato: «Allora, la morte non sarà la fine di tutto e il Regno di Dio arriverà come noi abbiamo sperato».
2.- Possiamo presumere che la domanda di Giovanni e di Giacomo (i due figli di Zebedeo) che fa da sfondo al nuovo insegnamento di Gesù, nasca proprio da fantasie di questo tipo. Di fatto, essi chiedono: «Maestro, fai in modo che noi possiamo sedere al tuo fianco, come tuoi consiglieri, quando tu sarai il re». E' una domanda quanto mai umana, per due discepoli che hanno condiviso il percorso di Gesù. Troppo umana - tanto da meritare il rimprovero del Maestro.
A sentire questa richiesta, gli altri discepoli si indignano. Perché? L'impressione è che non si indignino tanto perché ritengono sbagliata (teologicamente) la loro richiesta, quanto piuttosto perché pensano che i due figli di Zebedeo vogliano "scavalcarli" e prendersi tutta la gloria per loro. Tutti i discepoli danno l'impressione di vivere nella prospettiva di un regno umano in cui valgono le regole umane: è importante detenere il potere e avere gli strumenti per conquistarlo.
3.- La risposta di Gesù capovolge il punto di vista dei suoi discepoli (di tutti i discepoli – di tutti i tempi): «Il Figlio dell'Uomo è venuto non per essere servito, ma per servire» - con quel che segue. Un Signore che viene per servire: già questa sembra una contraddizione incomprensibile per il nostro modo di intendere le cose. Eppure, è proprio di questo Signore che noi siamo chiamati a divenire discepoli ed è questa la via che siamo chiamati a seguire. Del resto, il pensiero di Gesù su chi governa è chiaro: «Voi sapete che quelli che sono reputati prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio. Ma non è così tra di voi». Sembra di riascoltare le parole del pastoreTullio Vinay, il quale diceva che l'Agape è l'anti-potere (e per queste affermazioni, a suo tempo veniva contestato anche dalla "sinistra" della Chiesa) ed esplicitava il concetto rovesciando il famoso detto latino "mors tua, vita mea" nel suo opposto: "mors mea, vita tua".
È un tema quanto mai scivoloso, quello del rapporto fra potere e servizio perché da un lato, a livello teorico, fare politica significa mettersi al servizio della collettività per governare la cosa pubblica; mentre a livello pratico ci si rende conto che (in tutti i Paesi, ma in special modo in Italia) è vero esattamente il contrario. Oggi è la domenica della legalità e si potrebbe facilmente cedere alla tentazione di iniziare una giaculatoria sulla corruzione, gli sprechi e le ruberie a cui da troppo tempo assistiamo. Del resto, basti citare il fatto che in questi giorni un ministro ha dovuto dare le dimissione, se non altro per non aver vigilato sul modo in cui dei suoi funzionari gestivano gli appalti. Ma è anche vero che gli uomini politici sono portati al potere dal voto popolare e questo fatto ci indica come il cancro del malaffare sia profondamente radicato nel nostro Paese.
4.- Occorre dunque una decisa inversione di tendenza. L'agape di Cristo è un porsi al servizio dell'altro, in modo che l'altro (cioè colui che è nel bisogno) possa muoversi con le sue gambe – in questo senso è l'anti-potere. C'è una frase che amo citare e che è contenuta nel libro "Servabo" di Luigi Pintor: "Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi". Il senso del nostro "essere con l'altro" sta tutto in questa frase.
A dire il vero, nel corso dei secoli, anche la Chiesa cristiana (nelle sue varie denominazioni) ha cercato molto di più i riconoscimenti dei governi e dei potenti che non il servizio. Ma anche nel migliore dei casi, quando cioè si è volta verso coloro che sono nel bisogno, ha finito col trasformare il servizio in un ministero specifico all'interno della Chiesa (il ministero del Diacono), sia nel senso della specializzazione, sia nel senso dell'organizzazione. Ma la diaconia, il servizio, non è uno fra i tanti ministeri della Chiesa o del credente (o di alcuni credenti), bensì è piuttosto il modo in cui la Chiesa vive il discepolato del suo Signore. La Chiesa (in quanto discepola del Cristo diacono) o è diacona lei stessa, o non è. Possiamo domandarci: la chiesa valdese di Torino è diaconale? Per certi versi si (penso al fatto che molti soldi vengono dati per aiutare le persone in difficoltà), ma deve compiere ancora dei passi in avanti per una sua presenza diffusa nel tessuto cittadino e c'è troppo in tutti noi la tentazione di delegare a pochi volontari quello che dovrebbe essere l'impegno collettivo. Solo se noi torniamo ad avere una visione diaconale della nostra fede, possiamo vedere anche le nostre iniziative diaconali non sotto il profilo della delega, ma come espressione del nostro essere la Chiesa di Cristo e così la nostra parola diventerà immediatamente un gesto significativo nei confronti di chi è nel dolore.
Così saremo discepoli fedeli del Cristo diacono.

                                                              Pastore Paolo Ribet




Domenica 22 marzo 2015
Predicazione nel Tempio Valdese
C.so Vittorio  Emanuele II, 23
Torino

13 marzo 2015


Giovanni 12, 20 – 26

                                   Note esegetiche e omiletiche                                    
                              a cura della Prof. Giovanna Pons





Testo biblico 
20. Or tra quelli che salivano alla festa per adorare c'erano alcuni greci. 21. questi dunque, avvicinatesi a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, gli fecero questa richiesta: " Signore, vorremmo vedere Gesù ". 22. Filippo andò a dirlo ad Andrea; e Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
23. Gesù rispose loro, dicendo: " L'ora è venuta, che il Figlio dell'uomo dev'essere glorificato. 24. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. 25. Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna. 26. Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore; se uno mi serve, il Padre l'onorerà".

Contesto

Secondo lo Strathmann già dal primo versetto del capitolo 12 tutto il racconto è considerato sotto il punto di vista del Venerdì Santo. I versetti da 11,55 a 57 sono un'introduzione e in seguito troviamo gli amici di Betania e l'unzione di Maria che è un segno dell'imminente sepoltura di Gesù (12,1-8). La folla, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, presi dei rami di palma, gli va incontro, anche perché è stata testimone della risurrezione di Lazzaro dai morti. Ma allora i capi sacerdoti cercano di attuare i loro propositi sinistri (12,9-19).
Secondo il Barrett il Vangelo di Giovanni è uno scritto missionario per gli ebrei. Giovanni non scrive per dei cristiani (forse solo ai capp. 13-17) e neppure per dei lettori pagani. Ha scritto per chiarire che Gesù è il Messia. Dimostra interesse per un ambiente greco che emerge in 7,35 e 12,20. Sempre secondo il Barrett il Vangelo appartiene al mondo del giudaismo ellenistico e consiste in materiali che si formarono all'interno di una comunità cristiana in Giudea sotto lo stimolo delle dispute con i giudei del luogo. Ma nella sua forma attuale è un appello a coloro che sono fuori della chiesa, per guadagnare alla fede la diaspora di lingua greca.
Secondo lo Sloyan in questo Vangelo Gesù ha una posizione subordinata perché in primo luogo è Colui che è stato mandato per rivelare il Padre. In Giovanni ci sono parecchi segni compiuti da Gesù, ma lui stesso è il segno più grande che indica Dio.

Esegesi


vv. 20-22   Secondo il Brown la presenza dei greci alla festa della Pasqua ebraica vuol dire che i gentili vengono a Gesù per vederlo: essi sono il segno che per Gesù è "giunta l'ora". Anzi già nei capp. 11-12 troviamo le intenzioni di Dio di salvare i gentili. La loro venuta è teologicamente importante per l'universalismo ch'essa attesta.
Per altri commentatori invece la presenza dei greci si riferisce sia ai Giudei della Diaspora che a persone di cultura ellenistica (Atti 6,1) che possono anche essere degli stranieri al popolo d'Israele, dei "tementi Dio", interessati al monoteismo e alle regole etiche giudaiche. La richiesta dei greci a Filippo e Andrea, che sono gli unici discepoli ad avere dei nomi greci, si mantiene nella stessa prospettiva dell'unzione di Betania che ha annunciato in anticipo la morte e l'elevazione alla Croce di Gesù. Con la venuta dei greci l'"ora" è diventata ormai realtà presente (Molla). Anche per lo Strathmann questi uomini sono Elleni, gente del mondo di lingua greca, greci timorati di Dio, proseliti, perché si recano alla festa. Il desiderio dei greci è qualcosa di eccezionale perché indicano l'"ora", ma dopo la richiesta a Gesù, di loro non si parla più. Per l'evangelista ciò che è importante è che il mondo greco si accorga di Gesù perché Gesù è il Salvatore del mondo.
I greci vogliono vedere Gesù: "vedere è credere" perché la nostra fede deve avere una qualche base nell'esperienza. Il rapporto tra fede ed esperienza lo troviamo in ogni pagina del Nuovo Testamento, specie nell'evangelo di Giovanni (così il Kysar). Anche il Barrett dice che i greci, saliti al culto durante la festa non sono pagani, ma ebrei di lingua greca. Giovanni vuole che l'ebraismo di lingua greca non ripeta l'errore dell'ebraismo palestinese, rigettando Gesù. Per il Dodd i greci non sono pagani, ma "timorati di Dio" perché partecipano alla celebrazione festiva giudaica.

v.23   "L'ora della glorificazione è giunta" (13,1; 17,1). In questa parte del cap. 12 ci sono elementi sparsi che si possono mettere in parallelo con la scena sinottica dell'agonia, per esempio 12,23 e Marco 14,41. L'ora è diventata ormai una realtà presente e la glorificazione una necessità perché Gesù deve. Deve obbedienza totale al Padre perché egli è l'inviato per eccellenza, secondo il disegno di Dio. Nei capitoli precedenti si era sempre detto che la sua ora non era ancora venuta, ora essa è venuta, l'ora della glorificazione del Figlio dell'Uomo. La glorificazione del Figlio dell'Uomo consiste nella salvezza per la vita eterna di quel mondo che comincia a credere in lui. Glorificazione attraverso la morte e la resurrezione, cioè attraverso la sua elevazione, che gli dà la possibilità di attrarre tutti a sé. Questo concetto è spiegato con la metafora del grano di frumento.

v. 24  Per annunciare la sua morte Gesù usa l'immagine corrente del seme. Nei Sinottici quest'immagine fa parte delle parabole del Regno (Marco 4, 3-8; 26-29), ma qui ha un senso diverso. Ogni seme deve disgregarsi per rendere possibile la sua moltiplicazione, così è per Gesù se egli vuole che il giudizio di misericordia di Dio raggiunga tutti gli esseri umani. Il seme deve cessare di esistere perché il miracolo della sua moltiplicazione possa aver luogo. Questa possibilità, offerta a tutti gli esseri umani, di incontrare il Dio vivente, dipende dal Creatore che rivela in Gesù Cristo la sua volontà misericordiosa; ma appartiene alla creatura fare la sua scelta, prendere sul serio questo gesto di Dio o aggrapparsi alla propria vita (cfr. il Molla).
Caratteristiche giovannee rispetto alle parabole sinottiche sono: il doppio amen (in verità, in verità) il verbo menein (rimanere: usato per le persone, lo Spirito, l'amore, la gioia, l'ira e la parola). L'uso di pherein (portar frutto), mentre i sinottici usano poiein e dounai. Il granello di frumento caduto in terra significa morire. Gesù parla della morte come mezzo per conquistare la vita per tutti gli esseri umani: il contrasto è tra morire e portar frutto e non morire e quindi rimanere improduttivi (cfr. il Brown).
Nel libro dei segni Gesù è visto come Colui che dà agli esseri umani la luce e la vita, ma queste dipendono dalla sua morte e resurrezione. Alla fine del suo ministero Gesù proclama: "E' giunta l'ora", sta per giungere l'avvenimento che manifesterà la realtà sottostante a tutti i segni. Proprio abbracciando la morte e offrendo la sua vita Cristo glorifica Dio e nello stesso tempo riceve da lui la vera gloria. Cristo intuisce che la sua gloria non solo non consiste nell'affermazione della sua personalità, ma esige un effettivo rinnegamento di sé, rinnegamento reso esplicito nella metafora del seme (vedi il Dodd).

v- 25  Il contrasto fondamentale è tra odiare e amare (cfr. Luca 14,26 e Matteo 10,37). Vi sono 5 detti riportati nei Sinottici su questo tema: Mc. 8,35; Luca 9,24 e 17,33; Mt. 10,39 e 16,25. Però il Dodd dice che il detto di Giovanni non è un riadattamento del modello sinottico ed è più vicino al detto aramaico che non i Sinottici. Secondo il Brown "la sua vita" si riferisce alla vita fisica perché l'antropologia giudaica non conteneva il dualismo di anima e corpo. Inoltre il verbo apollynai è meglio tradurlo con distrugge piuttosto che con "perde". Questo versetto ripete in forma non parabolica il tema del versetto 24, cioè la necessità di morire per vivere. Nel v. 24 però Gesù doveva morire per portare gli altri alla vita, qui il seguace di Gesù non può sfuggire alla morte più del suo Maestro, ma deve passare attraverso alla morte per giungere alla propria vita eterna. Questa considerazione è il segno di quanto per la Comunità più antica l'idea del Crocifisso andasse unita ad un pressante invito a caricarsi anch'essa del peso della Croce (Mt. 10,38s.; 16,24s.).
"Colui che odia  la sua vita", ma in questo mondo: mette in evidenza ciò che lega l'uomo alle potenze di questo mondo ed è quindi un invito a contestare l'ordine di questo mondo. Chi fa questa scelta sussisterà in eterno davanti a Lui (1,4; 3,15; 4,14….).

v. 26  Il parallelo marciano (8,35) di Giovanni 12,25 è preceduto dalla frase:" Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua"(8,34), che sta in parallelo con Giovanni 12,26. In entrambe le tradizioni (sinottica e giovannea) i due detti sono uniti, ma in ordine inverso, e entrambi sono un invito a imitare Gesù. Ma il testo di Giovanni è più breve dei detti sinottici (vedi anche Mt. 10,38 e Lc. 14,27) perché manca il "porti la sua croce". Inoltre, mentre i Sinottici dicono "venir dietro a Gesù", Giovanni dice "servire Gesù". I Sinottici non parlano dei discepoli come dei servi di Gesù, però le donne lo avevano servito (Mc. 15,41 e Lc. 10,40). Forse la forma giovannea è quella più antica (cfr. il Brown). "Se uno mi serve" esprime una condizione indefinita, "Il Padre lo onorerà" ha un suo contesto in 5,23 e 8,49: il versetto è un parallelismo semitico, avendo servito il Figlio, il discepolo è onorato dal Padre. Il pensiero giovanneo sembra qui differire dai testi sinottici, per esempio da Marco 10,43-45. Qui Gesù vuol dire che chi lo riconosce come Signore e Maestro e quindi entra al suo servizio, quello "lo segua" e diventi suo discepolo. Così la relazione Maestro-servitore diventa relazione Maestro-discepolo. Attraverso la relazione che l'unisce al Figlio, il discepolo si troverà nella comunione del Padre (cfr. il Molla). 

Spunti per la predicazione

Il racconto si svolge nel contesto della Pasqua ebraica: tra coloro che salgono a Gerusalemme per la festa vi sono alcuni che non appartengono al popolo d'Israele, di cultura ellenistica, ma interessati al monoteismo ebraico. Essi vogliono "vedere" Gesù, vogliono fare l'esperienza di questo incontro, d'altronde la nostra fede deve avere una qualche base nell'esperienza e, se per noi l'esperienza del vedere Gesù non è più immediata, come lo fu per i discepoli, il Vangelo ci sta dicendo che il Cristo della fede deve essere ancora visto e ascoltato nella comunità dei credenti e che questo vale anche per gli anni 70-80 e non solo per il periodo della vita di Gesù di Nazareth. Nulla ci è detto dell'incontro tra Gesù e i greci, ma mentre nei capitoli precedenti Gesù era solito dire "la mia ora non è ancora venuta", ora invece "la sua ora è giunta": il contesto si fa universale, Gesù deve essere glorificato per attirare tutti gli esseri umani a sé. Questo vuol dire che deve passare attraverso la morte e la resurrezione, come viene ben esplicitato dalla parabola del seme che, caduto a terra, cioè morendo, porta molto frutto. Se si vuole diventare discepoli di Gesù bisogna seguirlo su questa via, lasciare che, nel corso della nostra esistenza, la nostra vita in questo mondo si consumi, si disgreghi a poco a poco al servizio di quel Gesù che ci chiede di servire e di amare quegli esseri umani che Lui vuole attirare a sé. Questa non è la via del successo, ma del servizio e, man mano che sentiamo questa vita terrena sfuggirci dalle mani perché spesa per gli altri, percepiamo la vera vita che ci giunge dall'alto, la comunione con Cristo e con la Comunità dei credenti. E questa è la nostra gioia.

                                                                                      Giovanna Pons



Testi per la lettura

Salmo 107, 1-3. 17-22;  Efesini 2, 1-10


Bibliografia

C.K.Barrett, Il Vangelo di Giovanni e il giudaismo, Paideia Ed., Brescia 1980
R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Ed., Assisi 1979
C.H.Dodd, L'interpretazione del quarto Vangelo, Paideia Ed., Brescia 1974
R.Kysar, Giovanni, il Vangelo indomabile, Claudiana Ed., Torino 2000
C.F.Molla, Le quatrième Evangile, Labor et Fides, Genève 1977
G.Sloyan, Claudiana Ed., Torino 2008
H.Strathmann, Il Vangelo secondo Giovanni, Paideia Ed., Brescia 1973