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30 aprile 2012




Giovanni 10: 11-18
Il pastore e le pecore

Predicazione del Past. Paolo Ribet

Tempio Valdese
C.so Vittorio Emanuele II, 23 – Torino
Domenica, 29 aprile 2012


Il testo biblico
11 Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. 12 Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), 13 perché è mercenario e non si cura delle pecore. 14 Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, 15 come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16 Ho anche altre pecore, che non sono di quest'ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore. 17 Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. 18 Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest'ordine ho ricevuto dal Padre mio».

Lettura d'appoggio: I Samuele 17: 31-37

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1. L'immagine del pastore e delle pecore forse oggi non è più "parlante" come un tempo, ma è spesso presente nell'Antico come nel Nuovo Testamento e viene usata per indicare sia Dio che il re (in questo caso, è in linea con quanto affermato anche in altre nazioni). È significativo l'esempio di Davide che abbiamo ricordato con la lettura biblica: egli, prima di recarsi a combattere contro il gigante Golia dice a Saul, legittimo re: "dovresti andare tu a lottare contro Golia, perché tu sei il re, cioè il pastore del tuo popolo. Quando io ho la responsabilità del gregge, combatto contro orsi e leoni per difendere le mie pecore – ora tocca a te difendere Israele". In questo modo, Davide mostra chi è il vero re/pastore di Israele.

2. Oggi una simile immagine probabilmente non ha più la stessa rilevanza di un tempo. Anzi, crea qualche problema.
  • Innanzitutto perché noi viviamo in un tempo in cui sono molti i "pastori" che si presentano sulla scena per guidare il Paese,
  • In secondo luogo perché da un lato noi diamo molta importanza all'individuo (anche se un simile discorso rischia di essere ambiguo, perché è faticoso essere persone libere e comportarsi come tali). Domenica scorsa, prima dell'Assemblea, il past. Tagliero ha detto che più che alle pecore, somigliamo alle capre, cioè animali indipendenti.
  • Mentre d'altro lato la tentazione che sembra serpeggiare anche nel nostro Paese è proprio quella di affidarsi (mani e piedi legati) a un dittatore, sia pure un dittatore soft e seducente.

3. E allora, come dobbiamo leggere il nostro testo?
Il capitolo 10 dell'evangelo di Giovanni fa seguito al racconto, molto articolato, della guarigione del cieco nato e precede quello della resurrezione di Lazzaro – due momenti molto forti che però si concludono con l'ostilità degli avversari di Gesù che arrivano addirittura pensare di ucciderlo. La figura del pastore che Gesù evoca per tutto il capitolo non è dunque una figura bucolica, pastorale, pacifica; ma è piuttosto quella del pastore che sacrifica la sua vita per salvaguardare le pecore che gli sono state affidate. È anche una osservazione fortemente polemica, in quanto la figura del buon pastore è contrapposta a quella dei mercenari o, peggio, dei ladri che entrano nell'ovile per depredare il gregge.

4. Aver cura. Nell'evangelo di Marco, il racconto del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci si apre con una annotazione: Gesù ebbe compassione della folla perché «erano come pecore senza pastore». Questa ci dà il senso della cura che Gesù ha per il suo popolo che evidentemente è mal guidato da coloro che dovrebbero esserne i capi – e l'osservazione ha un senso sia politico (perché Israele sarà condotto, per delle aspettative messianiche mal riposte, alla ribellione contro Roma e alla distruzione di Gerusalemme, nel 70 d.C.), sia spirituale, perché la religione si era trasformata in un legalismo asfittico (cfr. Ezechiele 34).
Noi viviamo in un tempo simile a quello descritto da Giovanni e da Marco: un tempo di scoraggiamento e di disorientamento. E, di conseguenza, di rabbia. Si dice che è finito il tempo delle ideologie – e questo potrebbe essere un bene perché le ideologie hanno portato a guerre spaventose e persecuzioni senza fine. Si dice anche che in questi anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e che la crisi nasce dalla fusione di queste due realtà. Comunque sia, la conseguenza che appare ai nostri occhi è che manca una idea guida, una prospettiva che orienti verso il futuro. E quindi vince (anche a livello ideologico) l'individualismo e il desiderio di guadagnare il più possibile nel tempo più breve possibile. Questo era vero negli anni passati (gli anni che ci hanno portati alla crisi) ed è vero ancora adesso.
Il disorientamento non è solo ideologico, ma anche spirituale – e in questo le chiese hanno la loro responsabilità. Nella chiesa valdese, dopo i dibattiti su fede e politica degli anni '70 e '80, sembra regnare la calma, non ci sono divisioni e non si discute più. Ma non sono convinto che questo sia un bene, perché la sensazione è che in realtà il dibattito non esista più perché ci siamo chiusi in noi stessi, ci siamo appiattiti sul pensiero unico individualista che domina nel mondo contemporaneo e perché anche noi abbiamo perso la prospettiva del futuro.
Credo che sia venuto il momento di assumerci le nostre responsabilità di cura verso un mondo disorientato.

5. Dare la vita. Gesù mostra il volto del vero pastore, del buon pastore. Egli è colui che dà la sua vita per il gregge. I paralleli sono Giovanni 13 (dove Gesù, con un atto simbolico depone la veste e poi la riprende) e Filippesi 2 (dove è detto che Gesù spogliò se stesso). Il tempo della Passione e della Pasqua che abbiamo vissuto da poco ci danno lo spessore delle parole di Gesù, il quale è il nostro Signore e Salvatore non perché ha insegnato una filosofia di elevati contenuti morali, ma perché nella sua morte e nella sua resurrezione ci ha donato la vita.
Questi paralleli ci aprono anche a una dimensione nuova del nostro essere il gregge di Dio: non una massa di pecore, ma sorelle e fratelli che si amano e che sono capaci di condividere ciò che hanno e servirsi vicendevolmente.
Ci apre a una nuove dimensione del nostro rapporto con Dio, un Dio che sa amare le sue creature fino a donarsi per loro.
Ci apre a una nuova dimensione del futuro, un futuro per il quale siamo disposti a lottare impegnandoci in prima persona per smascherare i mercenari che vogliono prendere il posto del vero pastore e per fare in modo che il gregge di Dio non sia disperso e disperato, ma capace di annunciare il nuovo di Dio presente in Cristo.

                                                                                                   Paolo Ribet