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13 aprile 2008



ATTI 17, 22-34
DISCORSO DI PAOLO NELL'AREOPAGO DI ATENE

Meditazione di Aldo Palladino
Chiesa Valdese di Via Nomaglio, 8 - Torino
Domenica, 13 aprile 2008




Il testo biblico
22 E Paolo, stando in piedi in mezzo all'Areòpago, disse:
«Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. 23 Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio. 24 Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d'uomo; 25 e non è servito dalle mani dell'uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. 26 Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, 27 affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi. 28 Difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: "Poiché siamo anche sua discendenza". 29 Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall'arte e dall'immaginazione umana. 30 Dio dunque, passando sopra i tempi dell'ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, 31 perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell'uomo ch'egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti».
32 Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni se ne beffavano; e altri dicevano: «Su questo ti ascolteremo un'altra volta». 33 Così Paolo uscì di mezzo a loro. 34 Ma alcuni si unirono a lui e credettero; tra i quali anche Dionisio l'areopagìta, una donna chiamata Damaris, e altri con loro.

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Rivelazione di Dio e religione a confronto

L'altare "al dio sconosciuto" (agnosto theo), che Paolo trova ad Atene, è l'espressione originale ed estrema di una religiosità espressa attraverso attività cultuali idolatriche e un sistema d'affari che si era sviluppato intorno al mercato del sacro. Quella religiosità tentava di fornire le risposte alle domande ricorrenti di quel tempo in merito al potere e ai desideri delle divinità, all'origine e al destino dell'umanità, alla possibilità dell'uomo di rispondere agli dèi con offerte, sacrifici, e ogni altro comportamento rivolto ad evitare soprattutto la loro ira o i loro capricci. Per Paolo, quell'altare è il sintomo di una ricerca, di domande che attendono una risposta, di un bisogno spirituale inappagato. Gli Ateniesi sono un popolo che indaga e discute, che riflette e critica, che dialoga ed è pronta al confronto con le novità emergenti, e Atene, definita "la pupilla della Grecia" da Filone, "la lampada [il faro] di tutta la Grecia" da Cicerone, "la madre di tutte le arti", ancorché in possesso di un patrimonio artistico e culturale di grande splendore, è un gran mercato non solo d'idoli (At 17,16), di statuette di marmo, di bronzo, di legno o di argilla, ma anche sede culturale d'importanti sistemi filosofici epicurei, stoici, cinici, neopitagorici, medioplatonici. Insomma, Atene è il più importante centro di incontro e di confronto culturale dell'area mediterranea e mediorientale.
In quel panorama, anche per Paolo c'è spazio per l'annuncio dell'evangelo, della "buona notizia" di Gesù e della sua risurrezione. Non si sottrae al confronto, non guarda le cose con lo spirito di un turista, un po' divertito e distaccato, ma al contrario si getta nella mischia con il carattere del missionario che ha qualcosa d'importante da comunicare o Qualcuno da presentare: nella sinagoga discute con i Giudei e nella piazza con quelli che vi si trovavano (v. 17), gente comune, bigotti, curiosi, tradizionalisti, uomini e donne di passaggio, artigiani e commercianti. E incontra anche filosofi epicurei e stoici (18) e personaggi della cultura ateniese.
Il messaggio cristiano raggiunge dunque gli ateniesi "estremamente religiosi" (deisidaimonestérous) e la rivelazione di Dio, sia pur mediata dall'uomo, entra in contatto con la "religione", di cui svela limiti e debolezze.  
Così scrive il prof. Paolo Ricca in un suo recente articolo, comparso sul n. 13 del settimanale "Riforma" della Chiesa Valdese: "Karl Barth… ha dedicato alla religione un lungo e importante paragrafo (il § 17) della sua Dogmatica, nel quale contrappone la religione alla rivelazione e, alla luce di quest'ultima, definisce la religione come «incredulità», come «la specialità dell'uomo senza Dio». «Se l'uomo credesse – egli scrive – ascolterebbe; invece, nella religione, è lui che parla. Se l'uomo credesse, accetterebbe; invece, nella religione, vuole prendere. Se l'uomo credesse, lascerebbe Dio agire come Dio; invece, nella religione, l'uomo non esita a voler afferrare Dio». È vero: nella religione il protagonista è l'uomo, nella rivelazione è Dio. La religione è un prodotto umano (molto umano), la rivelazione è opera divina. Come prodotto umano, la religione può essere, come s'è detto, molte cose, anche negative (superstizione, settarismo, fanatismo, ecc.), e come tale è da combattere ovunque si manifesti, a cominciare dalle chiese… Ma la religione può anche essere altro, e cioè, molto semplicemente, una domanda, l'espressione di un bisogno, di un'attesa, forse persino di una ricerca. In questo senso, la religione non è da combattere, ma da capire, se possibile da decifrare, e forse da ascoltare, anche quando la domanda, come spesso accade, è formulata male o addirittura deviata. La religione come domanda non è, secondo me, «una cosa cattiva»; la «cosa cattiva» è considerata una risposta. La risposta alla domanda implicita nella religione non sta nella religione, ma nella rivelazione".

Il discorso nell'Areòpago

Dopo essere stato accusato da alcuni di essere un ciarlatano (letteralmente, una cornacchia), un seminatore di parole, e da altri un predicatore di divinità straniere (v.18) [da notare che gli uditori di Paolo credevano che egli fosse portatore di due divinità, Gesù e la dea Anastasis=risurrezione], l'apostolo Paolo è condotto nell'Aeròpago (da Areios pagos = collina di Ares, cioè di Marte) per consentirgli di spiegare in modo più approfondito il soggetto della sua predicazione. Ed è qui che Paolo intrattiene i suoi ascoltatori su quel "Dio sconosciuto o ignoto" al quale essi avevano eretto un altare.
Si tratta evidentemente di un pretesto, di un punto d'aggancio da cui far partire il suo discorso sul Dio unico e vero, una retorica captatio benevolentiae all'interno del comportamento di Paolo di farsi giudeo con i giudei e greco con i greci per guadagnare tutti a Cristo (1Cor. 9,20-23).

Dunque, Paolo rivela il "dio sconosciuto". Il suo annuncio (kérigma) può essere riepilogato in quattro punti:
1) Dio è il Creatore dei cieli e della terra (v.24);
2) Dio è il Creatore dell'intera umanità, che è discendenza di Dio (v.26-28);
3) L'uomo è chiamato a convertirsi dagli idoli all'Iddio unico e vero (29-30);
4) Dio ha stabilito la sua giustizia per mezzo di un uomo, Gesù Cristo, morto e risuscitato (31). 

Dio è lontano e vicino
È evidente che il contributo di Paolo non poteva prescindere dalla sua cultura giudaica, né poteva distaccarsi dalla sua esperienza di fede consolidata in anni di servizio. Il Dio di cui parla Paolo è lo stesso di quello presentato nei racconti della creazione in Genesi, all'atto della creazione di Adamo, di Eva, ed è lo stesso Dio del Decalogo (Es. 20, 2-5) e dello Shèmà di Deut. 6,4, che celebra l'unicità di Dio. L'Iddio di Paolo non è materializzabile in un idolo, né può essere relegato in luoghi chiusi, templi o edifici costruiti per farne una sorta di pantheon di più divinità. L'Iddio di Paolo è creatore: medita, progetta, esegue, ama, entra in relazione con l'uomo, si avvicina e si allontana, è libero. È l'Iddio vivente e vero che, come dice il Salmista, ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò ch'è in essi; che mantiene la fedeltà in eterno, che rende giustizia agli oppressi, che dà il cibo agli affamati…libera i prigionieri, apre gli occhi ai ciechi, rialza gli oppressi, ama i giusti, protegge i forestieri, sostenta l'orfano e la vedova, ma sconvolge la via degli empi, regna per sempre (Salmo 146,6-10), che odia il peccato e ama il peccatore fino a dare tutto per lui. Questo Dio è il motore e la vita dell'umanità e tutti hanno la possibilità di conoscerlo e rispettarlo come Padre, perché tutti sono suoi discendenti, essendo stati creati a sua immagine e a sua somiglianza. La relazione Dio-uomo, che rende Dio vicino all'uomo, non è tuttavia una relazione di possesso di Dio da parte dell'uomo né dell'uomo da parte di Dio, perché è in gioco la libertà di Dio e la libertà dell'uomo. Tutte le volte che l'uomo intende manipolare o imprigionare Dio, disponendo di Lui a suo piacimento, Dio, che è vicino o dentro l'uomo, si allontana. Dio, dunque, è vicino e lontano.

La nostra attuale vocazione: predicare Cristo, non colonizzare la società
L'annuncio di Paolo è per noi un modello di confronto pacato tra la cultura ellenistica e il messaggio giudeo-cristiano. Non c'è sentimento d'aggressività né arroganza nelle sue parole. Neanche di giudizio personale per una religione idolatra o per una cultura senza Dio. Lontana da lui è la volontà di imporre una propria visione della vita, con il proponimento di colonizzare quell'ambiente e piegarlo alle sue idee. Piuttosto, c'è in lui il sentimento di offrire un servizio, una via di fuga da una religiosità morta e senza speranza. La sua predicazione rende il "Dio sconosciuto" in Dio conoscibile attraverso la vita e l'opera di Gesù Cristo, che lui ha incontrato sulla via di Damasco. Conoscere Gesù Cristo morto e risorto significa riconoscere l'azione di Dio per questa umanità. Oggi come allora, è possibile comprendere che Dio agisce quando la linfa della vite, che è Gesù Cristo, scorre fino ai tralci (i credenti in Cristo) perché questi producano dei frutti (Giov. 15,1-11).
Predicare il messaggio di liberazione e di salvezza in Cristo, vivere la vita con uno spirito di confronto e di dialogo (non di contrapposizione) è la nostra vocazione attuale. Non è più il tempo delle crociate o delle guerre di religione, alimentate da una cultura di violenza, di sopraffazione, dalla sete del potere, che hanno prodotto soltanto sangue, morte e a nulla sono servite. Quel tempo è finito. Oggi noi abbiamo la responsabilità di incontrare il fratello uomo nella sua dimensione d'umanità per dialogare, parlargli, accoglierlo anche nella differenza culturale e presentargli la visione di un cammino insieme seguendo le indicazioni di una vita possibile secondo lo spirito del Regno di Dio.
Come è successo a Paolo, può darsi che questo modo di ragionare faccia sorridere qualcuno. Ma noi andremo avanti in questo progetto, perché qualcuno si unirà a noi e crederà che il Regno di Dio e la sua giustizia in Cristo Gesù è possibile, qui e ora. Così han fatto Dionisio l'aeropagita, una donna chiamata Damaris e altri con loro, che si unirono a Paolo e credettero (v.34).

                                                                                         Aldo Palladino

03 aprile 2008


Goffredo VARAGLIA

(1507 – 1558)

 

450° ANNIVERSARIO

29 marzo 1558 – 29 marzo 2008

 

 

 

Nacque nel 1507 a Busca, non lontano da Cuneo. Suo padre, ufficiale del Duca di Savoia, aveva partecipato alla sanguinosa crociata contro i Valdesi del Pragelato nel 1488-89.

Orientato fin da ragazzo alla vita religiosa, il Nostro Goffredo entrò a 14 anni nell'Ordine dei Francescani osservanti nel convento di Busca.

Dopo un lungo tirocinio e vari anni di studio a Torino, nel 1528 fu ordinato sacerdote nella cattedrale della città dal vicario del cardinale Cybo.

Quando Matteo da Bascio e altri tre frati fondarono un nuovo Ordine francescano ancora più rigoroso, che sarà detto dei cappuccini, Goffredo vi aderì con entusiasmo accettandone le condizioni di vita estreme, al limite delle capacità umane.

Intorno al 1536 fu scelto tra i dodici predicatori inviati in ogni regione d'Italia. Divenne amico di Bernardino Ochino che nel 1538 e poi ancora nel 1541 sarà eletto generale dell'Ordine ed ebbe certo con lui molte conversazioni chiarificatrici. Seguendo il consiglio del suo generale, Goffredo iniziò a "leggere assiduamente nell'eccellentissimo libro della croce". Fu allora che il messaggio della salvezza per sola grazia cominciò a far breccia nel suo cuore. Anni dopo dirà:

 

"quand'ero cappuccino e credevo di avere per la mia povertà e per altri voti meriti d'avanzo, non lasciavo cosa da fare per divenire santo e comprarmi il paradiso. Ora tutto questo era finito".

 

Nel 1542, quando Bernardino Ochino dovette fuggire a Ginevra per salvarsi dall'Inquisizione, Goffredo fu inquisito e sospettato di opinioni eretiche. Dovette abiurare e fu detenuto per cinque anni a Roma sotto il controllo dell'Inquisizione. Infine fu perdonato ma venne espulso dall'Ordine e fu ammesso come prete secolare.

Nel 1556 Goffredo fu assunto come cappellano personale dal più potente cardinale di curia, Carlo Carafa, nipote del papa Paolo IV, un tipico principe rinascimentale privo di ogni remora morale.

Varaglia seguì il cardinale alla corte di Parigi per una importante missione diplomatica. Al ritorno, durante una sosta a Lione, "non potendo resistere agli stimoli della mia coscienza", Goffredo abbandonò il cardinale, i suoi ricchi benefici e si rifugiò a Ginevra.

Qui fu bene accolto da Calvino e iniziò un periodo di intenso studio della Bibbia e dei principi della Riforma. Dopo la necessaria preparazione Varaglia fu inviato come pastore di lingua italiana alle Valli valdesi del Piemonte. Giunse in Angrogna il 26 maggio 1557 e iniziò subito a predicare in italiano nel tempio del Ciabàs per gli evangelici di S. Giovanni e di Bibiana. Le sue prediche forti, appassionate e dense di verità cristiana ebbero grande risonanza. Per ascoltarlo molti accorrevano anche dalla pianura e da località lontane.

Nel mese di novembre ricevette un invito: venire a Busca per un contraddittorio con il frate osservante Angelo Malerba. Pur rendendosi conto del pericolo, Goffredo accettò volentieri lieto di rivedere la sua cittadina natìa. Ma al ritorno fu arrestato a Barge e poi trasferito a Torino, rinchiuso nelle tetre carceri del Castello. Qui iniziò un lungo processo condotto dai rappresentanti del Parlamento e dall'Inquisitore. Gli Atti ci sono stati conservati.

L'imputato si difese energicamente dando dimostrazione della sua profonda cultura. Si fece ogni sforzo per convincerlo ad abiurare, ma Varaglia rimase fermo sulle proprie posizioni. Venne quindi condotto nella cattedrale per la cerimonia della degradazione.

 

 

 

 

 

 

La mattina del 25 marzo 1558 Goffredo fu condotto al patibolo eretto in Piazza Castello. Qui gli fu concesso di parlare alle oltre 10.000 persone presenti spiegando le ragioni per cui era condannato.

Terminò recitando il Padre Nostro e il Credo.

Infine fu strangolato e il suo corpo bruciato sul rogo. Secondo Jean Crespin una colomba bianca volteggiò sopra il fuoco come segno e testimonianza dell'innocenza del condannato.

Le parole di Goffredo e il suo coraggio fecero un'enorme impressione sui presenti.

 

L'11 novembre del 2000 il Comune di Torino pose  in Piazza Castello di fronte a via Garibaldi, una lapide a ricordo di Goffredo Varaglia, pastore valdese.

Nel 450° anniversario di questo rogo della fede ci auguriamo che la memoria dell'intolleranza e della crudeltà ci aiuti a costruire una società in cui le differenze, anche religiose siano apprezzate e non demonizzate. Il dialogo e il rispetto dei diritti umani sia la cifra di un presente che non dimentica un passato doloroso e violento. Non si può costruire un futuro nuovo senza fare i conti con la storia di ieri.

 

 

Per saperne di più:

 

Carlo Papini, Il processo di G. Varaglia (1557-58) e la Riforma in Piemonte, Claudiana, Torino, 2003

Renato Giuliani, Una vita e un martirio da non dimenticare, Edizioni Passeggio, Mantova, 2007.