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14 dicembre 2008

Mt. 11, 2-6 (7-10)

 

"Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?"

 

Predicazione di Aldo Palladino

 

Tempio Valdese di C.so Vittorio Emanuele II, 23 - Torino

Domenica 14 dicembre 2008

 

Testi d'appoggio: Isaia 61, 1-2; Giovanni 1, 6-8. 19-28;
1 Cor. 1, 21-31

 

Il testo biblico

2 Giovanni, avendo nella prigione udito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: 3 «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» 4 Gesù rispose loro: «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: 5 i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri. 6 Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!»

7 Mentre essi se ne andavano, Gesù cominciò a parlare di Giovanni alla folla: «Che cosa andaste a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? 8 Ma che cosa andaste a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Quelli che portano delle vesti morbide stanno nei palazzi dei re. 9 Ma perché andaste? Per vedere un profeta? Sì, vi dico, e più che profeta. 10 Egli è colui del quale è scritto:

"Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero

per preparare la tua via davanti a te".

 

Giovanni Battista

Il testo che abbiamo letto ci informa che Giovanni Battista si trova nel buio di una prigione. Lo storico giudeo Giuseppe Flavio narra, nella sua opera Antichità giudaiche, che la prigione si trovava nella fortezza chiamata Macheronte (in arabo, Qalaat al-Mishnaqa), fatta costruire da Erode il Grande, nella regione della Perea, su una montagna che domina il Mar Morto. A farlo imprigionare è stato Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, perché, come raccontano i Sinottici, aveva osato denunciare pubblicamente l'illegittima relazione con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo (Mt. 14:3, Mc. 6:17-18, Lc. 3:19-20).

Giuseppe Flavio, al contrario dei Sinottici, ne dà un'interpretazione politica affermando che l'imprigionamento di Giovanni Battista (e poi la sua decapitazione) fu voluto dal re Antipa, che temeva il suo potere carismatico e le grandi folle che lo seguivano (cfr. Ant. 18.117-118). Infatti, la predicazione profetica di Giovanni Battista era forte e incisiva tant'è che le folle accorrevano al fiume Giordano per farsi battezzare, per un battesimo di ravvedimento e per un ritorno sincero e vero al Dio dell'alleanza.

Dal deserto della Giudea aveva tuonato: "Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino". Aveva apostrofato farisei e sadducei con le parole: "Razza di vipere…fate frutti degni di ravvedimento", perché "ogni albero che non fa buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco". Infine, aveva annunziato la venuta del Messia dicendo: "Colui che viene dopo di me è più forte di me, e io non son degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco. Egli ha il suo ventilabro in mano, ripulirà interamente la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con fuoco inestinguibile" (Mt. 3, 1-12).

Insomma, il Battista era un personaggio scomodo ed una voce che nel deserto di questo mondo doveva essere messa a tacere. Il deserto, che era luogo della sua libertà, diventa così sede della sua prigionia e della sua morte. Lungo il corso della storia molti hanno sacrificato la vita per affermare ideali di fede, di libertà, di giustizia, di verità, di pace.

 

La domanda

Ed è in fondo a questa prigione che giungono al Battista le notizie dell'attività itinerante e delle opere di Gesù. Ma queste notizie non coincidono con le sue aspettative, che erano fondate sulla certezza dell'imminente giudizio di Dio attraverso il Messia veniente, Messia di fuoco che avrebbe bruciato la gramigna dei peccatori e degli infedeli, che avrebbe fatto uso della scure e della scopa: della scure per tagliare alla radice la mala pianta dei peccatori, e della ramazza per fare piazza pulita nell'aia della casa di Dio. Egli avrebbe ristabilito la giustizia, avrebbe messo ogni cosa a posto. La resa dei conti era vicina.

Purtroppo, il tempo passa e non ci sono segni visibili di cambiamento nella società: Giovanni Battista continua ad essere in carcere, Erode Antipa è al suo posto a gozzovigliare con Erodiade, gli scribi e i farisei a dominare con il loro pesante autoritarismo. Il male dilaga. Gesù opera, ma non sovverte l'ordine costituito.

Da qui nasce legittima la domanda che il Battista fa a Gesù tramite i suoi discepoli:

"Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?". 

Sorelle e fratelli, quali sentimenti racchiude questa domanda? Un dubbio? per cui Giovanni Battista comincia a pensare di essersi sbagliato su Gesù? Una provocazione? con cui il Battista intende sollecitare Gesù a entrare in azione come giudice severo e liberatore atteso? O c'è altro?

Io credo che questa sia la domanda della fede. È la domanda non solo del Battista, ma di ognuno di noi, perché c'è per tutti un momento della vita in cui di fronte alla storia di Gesù Cristo, dalla sua nascita alla sua morte e risurrezione, vogliamo sapere, capire, conoscere, approfondire di più per avere qualche risposta alla nostra ricerca di verità, del senso della vita o a qualche altro nostro bisogno.

Ma occorre stare attenti, perché la nostra indagine su Gesù non sia falsata dai nostri condizionamenti culturali, come nel caso del Battista che, con il suo background alimentato da una certa interpretazione delle profezie e dalla cultura dell'apocalittica giudaica, era in attesa di un Messia forte, deciso, pronto a far piazza pulita di tutto. Il pericolo sempre presente nella storia è quello di invocare un uomo forte che ci tiri fuori dai nostri problemi sociali, economico-finanziari, politici, religiosi. È successo già di aver visto trionfare il fascimo, il nazismo, la dittatura comunista, governi autoritari, ideologie antidemocratiche che pensavano di mettere ordine e di recare benessere, mentre hanno prodotto solo morte e devastazione.

Facciamo, dunque, attenzione a non costruirci, dentro e fuori la chiesa, un Dio, un Cristo, fatto a nostra immagine e somiglianza, espressione dei nostri sentimenti e dei nostri desideri e che sia un po' vendicativo per fare giustizia.  

 

"Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?"

Gesù non risponde con un si o con un no, ma invia a Giovanni la notizia di ciò che sta accadendo e che i discepoli hanno udito e visto: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri". Sono parole tratte dal profeta Isaia che descrivono l'era messianica ricca di opere prodigiose, di guarigione, di liberazione non solo in senso fisico, ma anche in senso spirituale, per cui i ciechi sono non solo quelli veri ma tutti coloro incapaci di riconoscere Dio e i sordi gli incapaci di ascoltare la sua parola, i morti che risuscitano sono non solo quelli richiamati alla vita, ma coloro che distrutti nella dignità di uomini e donne sono da Gesù ristabilite, rivalutate e portate alla vita come un valore per tutti. Infine, agli umili, ai poveri è predicata la buona novella. Non c'è solo la guarigione fisica, ma anche la buona notizia, l'evangelo della salvezza e della solidarietà di Dio per i poveri, per gli anavim, gli emarginati, per coloro che non contano, per i quali si pensa non ci sia l'interessamento di Dio.

La risposta di Gesù al Battista è l'annuncio che ciò che i profeti avevano preannunciato si sta realizzando. Il Messia è qui! Gesù è l'uomo forte atteso, ma non nel senso desiderato dal Battista, perché le opere e la  predicazione  di Gesù rivelano misericordia verso i poveri, i sofferenti, i lontani, difesa dei diritti dei piccoli, dei deboli, degli indifesi, degli esclusi da ogni forma di dignità. Gesù non è il Messia giustiziere e trionfatore, ma è il Messia dell'amore e del perdono, che si fa servo per la salvezza di tutti coloro che credono in lui.

Dice Gesù al Battista: "Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!".

Non sappiamo come Giovanni Battista abbia accolto il messaggio a lui destinato, ma noi lo riceviamo con gioia, perché Gesù rivela nella sua umanità il volto inedito di Dio. "Demolisce pezzo per pezzo l'immagine che noi ci costruiamo di Lui, magari fondandola sulla Bibbia. Ci invita a rileggerla e meditarla con più attenzione e ci fa scoprire così un Dio d'amore, di misericordia e grazia. E' proprio questo volto di Gesù che noi uomini fatichiamo ad accettare. I segni che Gesù ci propone per riconoscerlo come Messia sono semplicemente gesti di amore. Da questa attività misericordiosa si riconosce l'identità del Messia, ma anche della chiesa. A quanti domandano se Gesù è l'unico salvatore o bisogna ricorrere a un altro, la comunità cristiana deve poter rispondere: "Fate attenzione a ciò che vedete e udite: gli infermi vengono curati, i poveri soccorsi etc. Cioè, con la sua attività in favore dei poveri, malati e oppressi una comunità cristiana mostra che il Salvatore è qui e opera. Attraverso di noi Gesù vuole continuare a sollevare ogni miseria, asciugare ogni lacrima, far sentire la sua tenerezza a ogni persona sola e abbandonata. Noi siamo le sue mani, la sua carezza, i suoi occhi, la sua voce, il suo sorriso, il suo cuore per rivelare a tutti (e specie ai più deboli, malati, anziani, bambini abbandonati, ai disoccupati, agli stranieri tra noi) che sono preziosi per il Padre".

In questo tempo d'avvento, ma in tutta la nostra vita, accogliamo colui che viene incontro a noi per parlare ai nostri cuori e per salvarci! Per questo, come discepoli del Signore, noi con l'apostolo Paolo diciamo: "Noi predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini… Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono, perché nessuno si vanti di fronte a Dio. Ed è grazie a lui che voi siete in Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (1 Cor. 1,21-31). Amen.                                                                                     

Aldo Palladino

16 novembre 2008

II Corinzi 5,1-10

Graditi al Signore
in vita e in morte

 

Predicazione di Aldo Palladino

 

 


Domenica 16 novembre 2008

Tempio della Chiesa Cristiana Evangelica Battista

Via Viterbo, 116

Torino

 

Il testo biblico

1 Sappiamo infatti che se questa tenda che è la nostra dimora terrena viene disfatta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d'uomo, eterna, nei cieli. 2 Perciò in questa tenda gemiamo, desiderando intensamente di essere rivestiti della nostra abitazione celeste, 3 se pure saremo trovati vestiti e non nudi. 4 Poiché noi che siamo in questa tenda, gemiamo, oppressi; e perciò desideriamo non già di essere spogliati, ma di essere rivestiti, affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita. 5 Or colui che ci ha formati per questo è Dio, il quale ci ha dato la caparra dello Spirito.

6 Siamo dunque sempre pieni di fiducia, e sappiamo che mentre abitiamo nel corpo siamo assenti dal Signore 7 (poiché camminiamo per fede e non per visione); 8 ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore. 9 Per questo ci sforziamo di essergli graditi, sia che abitiamo nel corpo, sia che ne partiamo. 10 Noi tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male.

 

Altri testi d'appoggio: Mt. 25,31-46; Luca 17,20-21

 

Testo apologetico

Il testo appena letto è uno di quei brani apologetici che l'apostolo Paolo usa per difendere la fede cristiana dall'attacco di avversari che non credevano nella risurrezione dei morti. È certo che nella chiesa di Corinto ci fossero degli avversari dell'apostolo Paolo ed è ancora più certo che questa chiesa fosse fortemente influenzata dalla cultura greca, tanto che alcuni credenti avevano difficoltà ad accettare l'idea della risurrezione.

Il pensiero dominante considerava il corpo (soma) come "tomba dell'anima" (Platone in Fedone). Il corpo era destinato al disfacimento in quanto mortale, mentre l'anima (psyché) alla morte veniva liberata ed entrava in uno stato eterno. Quando si parla di immortalità dell'anima si introduce un concetto non cristiano.

Negare la risurrezione significava, dunque, minare uno dei fondamenti del credo cristiano. Paolo stesso in I Cor. 15, 12-17 si oppone a coloro che "dicono che non c'è risurrezione dei morti" (12); a costoro infatti rivolge questa ben nota parola: "Se i morti non risuscitano, neppure Cristo è stato risuscitato; e se Cristo non è stato risuscitato, vana è la nostra fede; voi siete ancora nei vostri peccati" (16-17). E ancora dice ai Corinzi: " Sapendo che Colui che risuscitò il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci farà comparire con voi alla sua presenza" (2 Cor. 4,14).

 

Parlare per immagini

Paolo utilizza due immagini per parlare della vita dell'uomo prima e dopo la morte, le immagini della tenda e del vestito.

La tenda (vedi anche Isaia 38,12 e 2 Pietro 1,13-14), detta anche tabernacolo, è figura del nostro corpo terreno che è destinato alla terra, a diventare polvere; figura dunque della precarietà della vita, della caducità, dell'instabilità e della provvisorietà.

L'idea della tenda o del tabernacolo ci ricorda anche la vita del popolo d'Israele nel deserto e il deserto è anche figura della nostra traversata terrestre verso la terra promessa, verso il cielo. Infatti, Paolo ci dice che quando la nostra tenda viene disfatta, abbiamo già pronto un edificio, una casa preparata da Dio, eterna, stabile, incorruttibile.

Anche il vestito parla di noi. La vita attuale è un vivere con un vestito vecchio, che un giorno si dovrà abbandonare; il corpo della risurrezione invece è il vestito nuovo che è riservato al credente in Cristo. Perciò la morte è un essere svestiti del vecchio abito e la risurrezione del corpo glorificato è un essere rivestiti di un nuovo abito.

 

La caparra dello Spirito Santo

Per l'apostolo Paolo, il passaggio dalla vita terrena alla vita eterna, attraverso la morte, rientra nel progetto di Dio. Ne è prova il dono dello Spirito Santo di cui abbiamo una caparra, un anticipo, un acconto di altri futuri beni. In questa vita Egli è guida, consolatore, insegnante, testimone (Gv. 14,26; 16,13), ed è la fonte della fiducia incrollabile nei confronti del futuro, ma soprattutto del presente. Egli è anche garanzia della realizzazione della realtà futura e dell'eredità celeste che i credenti aspettano (Rom. 8,23, Ef. 1,14).

L'apostolo Paolo afferma che i nostri corpi mortali saranno risuscitati dallo Spirito Santo (Rom. 8,11) e tutti i credenti saranno riempiti per mezzo di Lui di tutta la pienezza di Dio (Ef 3,16-21; 2 Cor. 3,17-18). Così Dio sarà veramente tutto in tutti (1 Cor. 15,28).

 
Fiducia e coraggio dinanzi alla morte

Il termine fiducia (gr. tharroùntes), che Paolo cita due volte nel nostro testo, ha il significato di "vero coraggio".

In effetti, il cristiano deve mostrare fiducia e coraggio dinanzi alle svariate e difficili situazioni della vita, perché Dio lo sostiene per mezzo del suo Spirito e non lo abbandona a se stesso. Anche di fronte alla morte, che la Scrittura chiama il "re degli spaventi" (Giobbe 18,14), il cristiano deve avere chiara la convinzione che abbandonare il corpo, che è stata la sua casa terrena, significa aprirsi ad un futuro migliore.

Paolo afferma nel nostro testo che noi siamo fisicamente "assenti dal Signore" (6) e "camminiamo per fede" (7), cioè che oggi, pur essendo in Cristo, non siamo realmente col Signore. Cammineremo per visione solo quando lo vedremo "faccia a faccia" (1 Corinzi 13,12). E da questo comprendiamo che la contrapposizione non è tra corpo e anima, bensì tra esistenza attuale ed esistenza futura di comunione con Cristo, tra lontananza e vicinanza rispetto al Signore, che ora è creduto ma non è ancora veduto.

 

Responsabilità etica del presente

Ma al v.9 del nostro testo, Paolo riporta i Corinzi e tutti noi credenti alla realtà dell'impegno di fede nella vita di tutti i giorni. Egli dice che sia che abitiamo nel corpo sia che ne partiamo, il nostro compito è di sforzarci di essere graditi al Signore.

Questa sua affermazione è fondamentale per comprendere il senso dell'intero discorso di Paolo, di ciò che gli stava a cuore. Benché, come giudeo, egli fosse impregnato di quella mentalità imperniata su una certa escatologia apocalittica, non bisogna pensare che egli fosse turbato sul dopo morte, anzi… quante sue espressioni hanno il tono dell'anelito a lasciare il mondo per incontrare il Signore! Ma la sua fede, ancorché protesa a ricercare motivi di speranza nel futuro di gloria, è sempre ancorata all'evento della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, fondamento del suo annuncio e della sua missione.

Paolo non racconta favole per i tanti curiosi sempre presenti nella cristianità di tutti i tempi.

Egli aveva a cuore la realtà della vita di fede, di fedeltà e di ubbidienza all'Evangelo. Come apostolo di Gesù Cristo, egli non avrebbe mai snaturato il kèrygma, l'annuncio liberatorio e salvifico della vita, della morte e della risurrezione di Gesù, perché il messaggio di Gesù ha sempre un impatto travolgente nella vita quotidiana delle persone. Il suo messaggio, anche se consola e conforta di fronte alla morte, non è una preparazione al trapasso in cielo, è un invito alla conversione, alla métanoia, al cambiamento dei cuori, delle menti, delle coscienze, a rispondere oggi alla sua chiamata per andare ad annunciare il regno di Dio senza ricorrere a varie giustificazioni per ritardare la sequela (Luca 9, 59-62).

Gesù chiama tutti a uscire dalla paralisi, dalla cecità, a vincere i nostri egoismi e la nostra povertà interiore, la nostra pigrizia o a superare la nostra fede in pantofole, ad alzarci per camminare in un modo nuovo, secondo principi di giustizia, d'amore, di verità, di misericordia, di grazia, a fare del bene a tutti, ma soprattutto a chi è nel bisogno.

La lezione di Gesù che riceviamo leggendo i Vangeli ci chiama ad un impegno concreto qui ed ora, perché questo è il tempo della nostra vita in cui siamo chiamati ad essere figli e figlie di Dio nella profondità di una relazione e di un servizio che ci lega gli uni agli altri e tutti insieme al Signore! Questo è il nostro tempo per produrre il frutto dello Spirito come segno del nostro cammino nel servizio attivo, nella consacrazione e nella santificazione!

Dice Gesù: "Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui straniero e mi accoglieste; fui nudo e mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in prigione e veniste a trovarmi… In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi minimi fratelli, l'avete fatto a me… In verità vi dico che in quanto non lo avete fatto a uno di questi minimi fratelli, non l'avete fatto neppure a me" (Matteo 25,35-36. 40. 45). Se realizziamo questo invito del Signore noi siamo beati.

Il Regno di Dio che Gesù ha inaugurato con la sua venuta sulla terra non vive di attese che paralizzano la nostra fede. Esso è pieno di contenuti programmatici che indicano le linee di lavoro entro cui occorre muoversi per realizzare la volontà del Signore per la nostra vita. Egli è il Signore della vita, non della morte. Le tombe e i defunti non interessano al Signore. L'unica tomba che ha un valore oggettivo di speranza è la sua tomba, la tomba vuota del Risorto, dinanzi alla quale si infrangono i nostri dubbi e tutte le nostre paure, dove si consolida la nostra speranza.

Cristo ha vinto la morte, il peccato e ogni potere avverso. La potenza della risurrezione di Gesù è la risposta a tutte le nostre domande su questa vita e oltre questa vita. Ogni nostra elucubrazione e tutte le nostre curiosità sulla vita dopo la morte non hanno più senso.

Ciò che è utile chiedersi non è cosa sarà di noi dopo la morte, ma come cambia la nostra vita dopo aver udito l'Evangelo e dopo che abbiamo accolto il regno di Dio dentro i nostri cuori.

 

Aldo Palladino

13 ottobre 2008

I Corinzi 12,12-14. 26-27

L'unità del corpo di Cristo

 


Predicazione di Aldo Palladino

 

Tempio Valdese di C.so Vittorio Emanuele II, 23 - Torino

Domenica 12 ottobre 2008

 

Il testo biblico

12 Poiché, come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo.

13 Infatti noi tutti siamo stati battezzati in un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito.

14 Infatti il corpo non si compone di un membro solo, ma di molte membra…

26 Se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui.

27 Ora voi siete il corpo di Cristo e membra di esso, ciascuno per parte sua.

 

(Testi d'appoggio: Matteo 25,14-30; Romani 12, 9-21)

 

 

OooOooo

 


Il lezionario "Un giorno una parola" (©) consegna oggi alla nostra riflessione questo testo biblico uscito dalla penna dell'apostolo Paolo. Leggendo questo testo viene da chiedersi subito cosa abbia indotto l'apostolo a scrivere questa significativa metafora del corpo e delle sue membra, che tutte insieme formano un solo corpo.

Dalla sue due lettere ai Corinzi capiamo che Paolo era preoccupato per ciò che accadeva nella chiesa di Corinto, ma soprattutto che era preoccupato che il messaggio evangelico venisse alterato da una cultura pagana pronta ad accogliere di quella parola evangelica solo ciò che era in armonia con essa e a rifiutare il resto.

 

La città di Corinto

La comunità di Corinto era inserita nel contesto sociale della città di Corinto, città dinamica sotto tutti i punti di vista, città di mare con due porti (Cencre sul mar Egeo, Lecheo sullo Ionio), luogo di grandi traffici e numerose attività commerciali e artigianali, con una popolazione eterogenea di varia etnia e di varie religioni, centro intellettuale dove erano rappresentate tutte le correnti di pensiero. Ma Corinto, più di altre città dell'epoca, aveva fama di forte materialismo e di estrema immoralità.

Già nel lontano passato, Omero la ricorda nell'Iliade come città ricca e immorale (Iliade 2.569-70).

Il filosofo Platone, volendo definire una prostituta, diceva "la ragazza di Corinto" (Repubblica 404 d).

Il drammaturgo Fileta scrisse un dramma burlesco su Corinto col titolo "la lussuriosa".

Aristofane coniò il verbo "corintizzare" per riferirsi alla fornicazione (Frammenti 354).

Infine, Strabone, geografo e storico greco, riferisce (Geografia 8.20) che intorno al tempio di Afrodite, sull'Acrocorinto, erano concentrate migliaia di prostitute pronte ad accogliere visitatori e viaggiatori dietro lauti compensi.

Dunque, l'apostolo Paolo sapeva che la città di Corinto aveva ereditato dal passato questa brutta reputazione.

 

La chiesa di Corinto

Per quanto concerne la chiesa di Corinto, sempre attraverso le sue lettere, Paolo ci fa capire che questa chiesa era tutt'altro che perfetta. Il quadro che ne tratteggia non è edificante: divisioni, contese, invidie, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini nel culto e nelle agàpi, impurità, fornicazioni, dissolutezze.

Alcuni credenti corinzi rifiutano il messaggio della risurrezione dei morti, che provoca la reazione di Paolo, con la famosa affermazione: " Se non v'è risurrezione dei morti, neppure Cristo è stato risuscitato, e se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la nostra fede" ( 1 Cor. 15,13-14).

Siamo, dunque, in presenza di una comunità che nel professare la propria fede si sente assai libera, una chiesa per niente coesa, una chiesa frammentata, lacerata, che era un vero laboratorio di ricerca della propria via dottrinale, forse anche del proprio cristianesimo.

 

Cristo, fondamento e capo del corpo, della chiesa

A questa chiesa che si sente perfettamente cristiana l'apostolo Paolo rivolge il suo insegnamento, le sue esortazioni e i suoi ammonimenti, fornendo indicazioni sulla fede, sulla vita cristiana, su cosa è e come funziona una chiesa, e lo fa a partire dalla teologia crucis. "poiché nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già posto, cioè Cristo Gesù" (1 Cor. 3,11).

Dice Paolo: "Come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo".  Cioè Paolo afferma con questa bella similitudine che Cristo, come il corpo umano, ha delle membra che tutte insieme formano il suo corpo, il corpo di Cristo. 

Dietrich Bonhoeffer afferma, nella sua opera "Sequela", che "lo spazio di Gesù Cristo nel mondo dopo la sua dipartita viene preso dal suo corpo che è la chiesa. La chiesa è lo stesso Cristo presente. In tal modo recuperiamo un pensiero largamente dimenticato circa la chiesa. Siamo abituati a pensare la chiesa come un'istituzione, mentre la chiesa deve essere pensata come "persona" in senso corporale, naturalmente una persona del tutto particolare. La chiesa è un soggetto singolo. Tutti i battezzati sono "uno in Cristo" (Gal. 3,28; Rom. 12,5; 1 Cor. 10,17).  La chiesa è un "uomo". È l'"uomo nuovo". Come tale essa è creata dalla morte in croce di Cristo. Qui l'inimicizia fra ebrei e pagani, che aveva lacerato l'umanità, è stata abolita, affinché "lui [Cristo] creasse in se stesso, dei due un solo nuovo essere umano facendo la pace" (Ef. 2,15). L'uomo nuovo è uno, non molti" (Sequela, ed. Queriniana, pag.222).

Trovo meravigliose e sorprendenti queste parole!

 

Unità della chiesa, dono di Dio

Fratelli e sorelle, anche se siamo molte membra noi siamo un solo corpo, chiamati da Cristo a condividere l'unità che Lui ha creato. Quest'unità non è una nostra conquista personale, ma è un dono di Dio, un miracolo operato mediante l'opera della croce, che riunisce in un sol corpo i figliuoli di Dio dispersi (Gv. 11,52; Ef. 2,13-16; 1 Cor. 12,13). È l'unità per la quale Gesù ha pregato il Padre (Gv. 17,11.17-23), e che si realizza tra coloro che sono divenuti membra del corpo mediante il battesimo, mediante la fede nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo. È l'unità che crea la comunione con Cristo e in Cristo e che, nella sua massima espressione, realizziamo nella Cena del Signore.   

 

Diversità delle membra del corpo

Fratelli e sorelle, noi tutti proveniamo da luoghi diversi; abbiamo storie e culture diverse, forse differente colore della pelle, tradizioni e abitudini diverse, forse anche lingue diverse, personalità differenti, ma siamo visti dal Signore come membra del suo corpo. Ognuno di noi ha ricevuto da Dio doni e talenti particolari, forza e vita. Ebbene, mettiamoli a disposizione della chiesa e del nostro prossimo. Non seppellire, fratello e sorella, il tuo talento sottoterra, ma utilizzalo qui ed ora perché questo è il tempo della tua vocazione e del tuo servizio! Il corpo funziona quando tutte le membra, sotto la direzione del Capo, cioè Cristo, agiscono e interagiscono per il bene e l'utile comune. E se sei stato chiamato ad un incarico particolare, ad un ministero specifico, servi il Signore con tutta la tua forza e con tutta la tua anima.

Sappiamo bene quante difficoltà si incontrano nella chiesa, in tutte le chiese. Si parte con entusiasmo e si finisce con la delusione di non essere capiti abbastanza, o di non essere presi in considerazione o ascoltati. Cominciamo allora a criticare, a gridare a tutti che la comunità non funziona, a scontrarci con chi non la pensa come noi, poi alla fine c'isoliamo o ci allontaniamo dalla comunità. Quando questo si verifica, la chiesa diventa non il luogo della testimonianza, della comunione, della gioia, della preghiera, del servizio, dell'aiuto reciproco, ma il luogo in cui si piange sulle miserie umane, sulle nostre sconfitte. Se ciò accade, penso che tutti insieme dobbiamo chiedere perdono al Signore per ricominciare una nuova relazione con Lui e con la comunità.

 

Chiesa solidale con i poveri della terra

Fratelli e sorelle, credo sia importante realizzare che siamo una sola cosa in Cristo. Se coltiviamo questa unità, in perfetta comunione di intenti e di sentimenti, saremo anche pronti ad essere una comunità solidale che soffre con chi soffre e gioisce con chi gioisce. Una comunità solidale è una comunità aperta, che non vive ripiegata su se stessa, ma che proietta il suo sguardo anche all'esterno, con un'attenzione particolare verso coloro che soffrono. In questo senso la chiesa è una chiesa missionaria che, interpretando la sua identità di sale della terra e luce del mondo (Mt. 5,13-14), predica l'evangelo della grazia, della liberazione dal male, che annuncia il Regno di Dio e della sua giustizia contro tutti quei poteri forti che, per amore del denaro e nell'interesse di pochi, opprimono le masse deboli e povere della nostra società e della terra, con disprezzo della dignità umana, e depredano e sfruttano ogni risorsa naturale senza rispetto per il creato.

La chiesa, come Cristo, non deve tacere di fronte ai mali del mondo. Noi non dobbiamo tacere! La parola che ci è stata affidata, che è giunta alle nostre orecchie come un sussurro, "predicatela sui tetti" dice Gesù (Mt. 10,27). Parola che non è solo annuncio, ma anche condivisione, solidarietà, difesa dei diritti umani e denuncia di ogni forma di illegalità e di ingiustizia (Ef. 4,13), come Gesù ha fatto.

Come membra del corpo di Cristo riscopriamo il contenuto del nostro mandato e lavoriamo insieme per l'avanzamento del Regno di Dio! Amen.
Aldo Palladino



© Un giorno una parola. Letture bibliche quotidiane per il 2008; Claudiana – Torino.

17 settembre 2008


Efesini 5,15-21
"Vivere la fede"

 

Note esegetiche e omiletiche

a cura di Aldo Palladino

 

Il testo biblico

15 Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi; 16 ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi. 17 Perciò non agite con leggerezza, ma cercate di ben capire quale sia la volontà del Signore. 18 Non ubriacatevi! Il vino porta alla dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito, 19 parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore; 20 ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo; 21 sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.

 
BREVE INTRODUZIONE
Divisione e autore della lettera

È evidente nella lettera agli Efesini una divisione in due parti:

§   la prima (capp. 1-3), con un impianto teologico esplicativo di temi quali il piano di Dio in Cristo, la riconciliazione di Giudei e Gentili in un corpo unico, la rivelazione del mistero di Cristo Gesù, [questo mistero, in 1, 9 - 10, è l'unico capo che raccoglie sotto di sé tutte le cose, del cielo e della terra, e, in 3, 6, è colui nel quale, mediante l'evangelo le promesse si estendono anche ai Gentili, eredi con i Giudei e membri di un medesimo corpo];

§   la seconda (capp. 4-6), con un tono esortativo, di carattere pastorale, che intende richiamare i credenti a vivere la fede con una condotta pratica coerente alla vocazione ricevuta, manifestando nella vita cristiana i tratti caratteristici dell'uomo nuovo (Cristo, il secondo Adamo, principio della nuova umanità) che prende il posto di quello vecchio.

Impianto teorico, prima, e applicazione pratica, dopo: è la tipica e ricorrente forma epistolare in uso all'epoca, molto utilizzata da Paolo e dalla sua scuola.

In questa lettera, scartata la paternità di Paolo, su cui non è il caso qui di ritornare, perché il tema è stato già trattato in passato, vari elementi d'ordine letterario, di stile, di linguaggio, ed anche alcuni riferimenti biblici, inducono a ritenere che l'autore della lettera sia stato un discepolo di Paolo o qualcuno a lui vicino.

Occorre tuttavia ricordare che "nella più antica tradizione, non ci fu alcun dubbio nei riguardi dell'autenticità della lettera. Verso la metà del II sec. Marcione, che in essa vedeva uno scritto indirizzato ai Laodicesi, la riteneva paolina. Ignazio, Policarpo, Clemente Romano, Erma, Ippolito, Ireneo, Tertulliano, Clemente di Alessandria, come pure il cosiddetto Canone di Muratori, hanno la stessa convinzione. Anche gli gnostici del II secolo, che stimavano molto questa lettera e la citano relativamente spesso (e non è un caso), la riconoscono come lettera di Paolo". (§) Dunque, la tradizione che attestava Paolo come autore delle lettera era forte, ma occorre considerare che allora mancavano gli strumenti di analisi letteraria, storico-critica, ecc. che oggi noi disponiamo.

 

Destinatari

La lettera è indirizzata "ai santi che sono in Efeso" (1,1). Ma tale espressione è presente soltanto in alcuni manoscritti; in altri antichi e prestigiosi manoscritti (Codex Sinaiticus, il Codex Vaticanus e il papiro di Chester Beatty degli inizi del 3° secolo) mancano le parole "in Efeso".

La tesi più avvalorata è che la lettera fosse una circolare, destinata a varie comunità, e che l'intestazione della chiesa destinataria fosse di volta in volta inserita prima dell'invio. È certo, tuttavia, che l'autore rivolgesse la sua attenzione a membri di chiese locali del sud della Frigia, cristiani provenienti dal paganesimo (1,15; 3,18; 6,18), distinti da quelli provenienti dal giudaesimo (1,13; 2,1.11.13.14; 3,1).

 
Data in cui è stata scritta l'epistola :                    

- verso la fine degli anni 70: Corsani, che non attribuisce la lettera a Paolo;

- anni 60-62, quando Paolo era in prigione a Roma (Atti 28,30): altri studiosi;

- anni 57-59, quando Paolo era in prigione a Cesarea (Atti 24,27): altri ancora.

Ma la data più condivisa è quella che colloca la lettera verso gli anni 70 o verso la fine del I secolo. 

 

 

NOTE ESEGETICHE

 

15. Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi;

      Il "dunque" segna il passaggio dal tono teologico e d'insegnamento a quello pastorale, che ha carattere di esortazione o di ammonimento. L'affermazione secondo cui i cristiani sono divenuti luce nel Signore (v. 8) per effetto della risurrezione che avviene nel battesimo (v.14), apre la strada ad una serie di avvertimenti: il primo è di "guardare con diligenza" il proprio comportamento, nel senso di badare, esaminare, considerare, riflettere, cioè di fare un esame continuo di se stessi, ma anche di vigilare su se stessi. Sono verbi più volte usati da Paolo (1 Cor. 3,10; 8,9; 10,12; 16,10; Gal. 5,15; Col. 2,8), che si trovano anche nell'A.T. e nei vangeli.

Ma l'Autore di Efesini pone l'accento sul "come" del comportamento, preoccupato di indicare ai suoi lettori la giusta condotta da tenere. Il cristiano deve avere una condotta sapiente ed intelligente (1,8; Col. 1,9.28) e deve perseverare nella sapienza che gli è stata rivelata e donata in Cristo Gesù, "potenza di Dio e sapienza di Dio" (1 Cor. 1,24). 

 

16. ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi.

      Questo secondo avvertimento, conseguenza del primo, per chi ha il cuore illuminato da questa sapienza, è di saper fare un giusto uso del tempo, che non è quello che ci è dato per le attività umane, il chronos, ma quello che Dio ci concede come opportunità per fare del bene a tutti (Gal. 6,10), il kairos, l'era dell'"ultimo giorno", era escatologica  che i cristiani devono vivere come tempo di Dio che avanza nel presente, tempo della decisione (Rom. 13,11) o tempo accettevole per la riconciliazione con Dio in Cristo Gesù.

Il motivo per cui occorre lavorare per il buon uso del kairos è che i giorni sono malvagi, altrimenti detti tempi difficili (2 Tim.3,1), ultimi giorni delle ricchezze accumulate (Giac. 5,3), ultimi giorni degli schernitori beffardi (2 Pietro 3,3). Sono gli ultimi giorni della tradizione apocalittica giudaica che considera la realtà umana dominata da calamità e tentazioni del maligno, sempre in movimento verso i tempi della fine.    

Ma durante i giorni malvagi c'è l'occasione per fare del bene. I cristiani sono chiamati a non subire il tempo della malvagità, ma a denunciare le opere delle tenebre (5,11), a proporre il tempo dell'amore di Dio, tempo salvifico, di luce e di speranza attraverso l'annuncio dell'evangelo di Gesù Cristo. Chi agisce così è saggio e intelligente.     

           

17. Perciò non agite con leggerezza, ma cercate di ben capire quale sia la volontà del Signore.

      L'azione del cristiano non deve essere caratterizzata da superficialità né da leggerezza, ma da sapienza e intelligenza. Essa è proficua ed efficace, se protesa verso una ricerca continua e costante della volontà di Dio, che non è mai definitiva e assodata, ma mutevole nelle diverse circostanze e situazioni della storia. La volontà di Dio non è mai prevedibile, però è predeterminata e rivelata per ciò che concerne il piano salvifico preordinato fin dalle origini e realizzato in Cristo.

Dio "può, mediante la potenza che opera in noi, fare infinitamente di più di quel che domandiamo o pensiamo" (3,20) e, dunque, non possiamo imprigionare la volontà di Dio nello scrigno delle nostre preghiere, dei nostri desideri o dei nostri pensieri, perché Egli si muove liberamente sempre al di là di noi, in vista del nostro bene. Per questo occorre conoscere "per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà" (Rom. 12,2).

Per discernere la volontà di Dio non basta conoscere la lettera della legge (Rom. 2,18), ma occorre aderire ad una Persona e ciò può avvenire solo per mezzo dello Spirito Santo che Gesù dona (Gv. 14,26).

Questo giustifica l'ammonizione del v. 18, che recita:

 

18. Non ubriacatevi! Il vino porta alla dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito,

      "L'ubriachezza è un problema talmente diffuso nelle chiese del N.T. che è un pericolo da cui anche i responsabili devono guardarsi (1 Tim. 3,3.8; Tito 1,7 e 2,3). Il vino porta alla perdita di autocontrollo e le azioni incontrollate portano alla dissolutezza. Questo comportamento non si addice a coloro che hanno trovato in Cristo la fonte della sapienza.

L'autore di Efesini non vuole privare i suoi lettori dal ricercare soluzioni dinanzi ai molteplici problemi della loro esistenza, ma propone loro un modo migliore per affrontarli: essere "ricolmi di Spirito Santo" o, secondo un'altra traduzione, essere "ripieni in spirito". Altri traducono: "Lasciate che lo Spirito Santo vi riempia", che fa meglio comprendere che l'azione dello Spirito Santo non è un'esperienza che si fa una volta per tutte. Il cristiano deve essere sempre aperto all'azione dello Spirito. In Atti 2,4 e 4,31, infatti, è più volte detto che i discepoli e i presenti furono "ripieni di Spirito Santo".

  

19. parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al

      Signore;

      Lo Spirito Santo crea comunione, dialogo, reciprocità, pluralità, coralità, tutti termini racchiusi nella parola "parlandovi". Non è un parlare a se stessi, ma un parlarsi reciprocamente con i temi e i canti contenuti nei salmi dell'A.T., ma anche con quelli prodotti spontaneamente nelle primitive comunità cristiane, di cui si ha traccia in Ap. 4,11; 5,9 s.; 15,3-4 e probabilmente anche in 1 Tim. 3,16. In parte commentati, li troviamo in Fil. 2,5 ss.; Col. 1,12 ss.; 1 Pt. 2,22 ss.

Questi salmi, inni e cantici spirituali devono essere espressione del "cuore" del credente. Non si tratta di un semplice sentimento o di uno stato emotivo, ma della determinazione e della decisione di rivolgersi al Signore e di aprirsi a lui nella preghiera, nella lode, nel canto.          

 

20. ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù

      Cristo;

      Lo Spirito Santo crea anche un sentimento di ringraziamento: si ringrazia Dio Padre nel nome di Gesù Cristo. La coralità liturgica che la comunità esprime diventa una conversazione che travalica la dimensione umana per diventare conversazione dello Spirito. Il canto che risuona in ambito comunitario e nell'intimo del credente diventa una preghiera di ringraziamento. A cominciare dal momento cultuale, che trova la sua massima espressione nell'annuncio della Parola e nella Cena del Signore, nell'Eucarestia, fino ad ogni momento della vita il credente è chiamato a rendere grazie a Dio per ogni cosa, per quelle buone e per quelle meno buone.          

 

21. sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.

      L'azione dello Spirito nel credente non può produrre sopraffazione, dominio sull'altro e qualsiasi forma di soggiogamento di una persona, nella chiesa, nella famiglia e nella società civile.

Il principio qui affermato è quello della reciproca sottomissione, non solo degli uni agli altri ma anche degli altri agli uni. Una comunione gioiosa dipende dalla sottomissione volontaria di una persona all'altra all'insegna dell'agàpe (Ef. 4,2-3). Lo spirito autoritario e l'orgoglio per il proprio ruolo sono distruttivi per la comunione. Piuttosto, ciò che aiuta una comunità a crescere è uno spirito di servizio verso chiunque e una disponibilità a imparare umilmente da chiunque, ad essere corretti da chiunque.

La sottomissione reciproca deve avvenire "nel timore del Signore", cioè nella consapevolezza che il Signore è anche giudice dei nostri comportamenti (5,10).

 

 

SPUNTI PER LA PREDICAZIONE

 

Altri testi di appoggio: Gen. 12,1-3, Marco 12,28-34; Rom. 14,17-19

 

Assunto: Vivere la fede

 

1. Tornare a noi stessi

Da dove cominciare per un cammino improntato a saggezza ed intelligenza?

Dopo aver ricevuto una trattazione teologica teorica nei capitoli dall'1 al 3, che ha guidato il lettore nella comprensione della salvezza per grazia mediante la fede (2,8) ed alla conoscenza di Cristo Gesù e del suo infinito amore (3,19-20), ci troviamo di fronte ad un brano estremamente pratico, che intende impegnare il credente a vivere l'evangelo che ha ricevuto. Dopotutto, la verità evangelica non è solo questione di idee, di storia, ma di prassi. Confinare l'evangelo nei nostri scompartimenti intellettuali per farne oggetto di analisi e ricerche per una sua maggiore comprensione è cosa nobile, ma se non riusciamo a trasformarlo in parole e azioni responsabili non ne abbiamo colto il suo esteso significato.

Dunque, il brano è rivolto agli uomini e alle donne credenti di allora e di oggi per impegnarli a vivere la fede in un cammino rinnovato.   

Martin Buber, nel suo scritto "Il cammino dell'uomo", attraverso una serie di riflessioni arricchite di racconti chassidici, delinea la crescita, la maturità, l'autenticità dell'uomo a partire da un ritorno dell'uomo a se stesso, come l'Eterno aveva detto ad Abramo: "Lekh-lekha, cioè "va' a te stesso" (Gen. 12,1).

È evidente che non si tratta di cercare nell'uomo le energie o la forza per salvarsi da sé [questo è ciò che affermano le filosofie orientali o la New Age]; si tratta invece di dare una risposta responsabile alla vocazione di Dio, alla Parola che ci giunge dall'esterno e che ci invita a riflettere su tale Parola per poi intraprendere il cammino nella direzione che essa ci ha indicata. Iniziativa divina e risposta umana sono due aspetti della stessa medaglia (ved. Apoc. 3,20).

Molto tempo prima di Abramo, Adamo, nascondendosi da Dio, in definitiva si nasconde a se stesso. Ed è per questo che la domanda che Dio gli rivolge: "Dove sei?" (Gen. 3,9) - poiché Adamo rappresenta ognuno di noi - in definitiva è rivolta ad ogni uomo.

Dunque, la ricerca della via della sapienza per una condotta saggia e responsabile (v. 15), evocata dall'autore di Efesini, deve cominciare dentro di noi per ritrovare prima noi stessi. Una volta terminato l'autoesame, possiamo uscire dai nostri "nascondigli", dove ci siamo rifugiati per sfuggire alle nostre responsabilità, adducendo le scuse e le giustificazioni più strane, alla maniera di Adamo, e scivolando di conseguenza nella falsità.

Il tempo che viviamo è ricco in conoscenza e cultura, ma è povero in sapienza. Ciò che manca all'uomo di oggi è il timore di Dio, principio della sapienza ( Prov.1,7), inizio di pentimento e di ravvedimento che possono fare luce nella nostra vita e renderci saggi per "discernere la propria strada" (Prov. 14,8).

 

2. Liturgia per la vita

    Il nostro testo costituisce, attraverso una serie di esortazioni, una sorta di liturgia per la vita che può essere intesa come un percorso che parte dall'uomo, prosegue nella famiglia, nella comunità, e finisce con il mondo intero. 

Martin Buber afferma: "Si comincia da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé" (opera citata).

Le tappe di questo percorso sono qualificate da questi tempi:

  

a)      Il tempo della decisione

Il credente è chiamato a rispondere alla vocazione che Dio gli ha rivolto nel kairos, cioè in un tempo che deve essere considerato appartenente alle cose ultime, ai giorni finali. Non c'è più tempo oltre il kairos, per cui non si può perdere tempo: è l'ora ultima della decisione a servire il Signore, a schierarsi apertamente dalla sua parte senza compromessi, ad annunciare l'evangelo, a procacciare la pace, la giustizia, l'amore, e a fare il bene in un mondo asservito agli idoli del denaro, del potere, della guerra e dello sfruttamento dei più deboli, un mondo che sa essere efficiente ed efficace nella malvagità.

   

b)      Il tempo dell'ubbidienza

Ubbidire alla volontà di Dio. È necessario dunque conoscere e comprendere questa volontà (Col. 1,9) per sapere a che punto ci troviamo nel nostro rapporto con Dio, personalmente e comunitariamente. Qui ed ora, il compito che ci sta davanti è realizzare il compimento della nostra esistenza facendo posto a Dio, eseguendo la sua volontà.

"Dio abita dove lo si lascia entrare", recita una massima ebraica. 

 

c)       Il tempo dello Spirito

"Siate ricolmi di Spirito" o " siate ripieni in spirito": questo è il segreto per il rinnovamento della vita. I tentativi dell'uomo per procurarsi un certo livello di felicità o di gioia di vivere sono legittimi, ma inefficaci. Il vino, altre bevande o sostanze che simulano uno stato di felicità effimera e provvisoria, come pure gli idoli dei nostri tempi che fabbricano e ci propinano illusioni, non aiutano il nostro cammino di credenti. Per questo, nella Scrittura troviamo espressioni che, contrapponendo alla legge della carne quella dello Spirito (Rom.8 2,4), alle opere della carne il frutto dello Spirito (Gal. 5,19-23), danno delle indicazioni per una crescente maturità spirituale. Di questo Spirito abbiamo solo la "caparra"  (2 Cor. 1,22; 5,5; Ef. 1,14), un pegno, un anticipo, tuttavia è sufficiente per trasformarci da "bambini in Cristo" in "uomini [e donne] spirituali" (1 Cor. 3,1), se siamo aperti alla sua azione in noi.

 

 

d)      Il tempo della comunicazione, della lode, della comunione

La presenza dello Spirito Santo nella nostra vita produce dei risultati:

- i credenti si parlano, dialogano, comunicano, si edificano gli uni gli altri. Il loro vocabolario cambia, la qualità del linguaggio si affina. Le loro parole non sono più pietre o frecce avvelenate, ma sono "un favo di miele; dolcezza all'anima, salute alle ossa" (Prov. 16,24).

Nelle relazioni interpersonali non amano più esaltare se stessi e mettersi al centro (Gv. 5,44) o primeggiare (Lc.9,46), perché nell'economia del Regno i nuovi punti di riferimento intorno a cui si realizzano fede e servizio sono Dio e il prossimo, da amare con tutta la forza del proprio essere.

- I credenti pregano e cantano inni di lode, di adorazione.

- I credenti stabiliscono una comunione nell'unità della fede, una fraternità effettiva, "una realtà divina…pneumatica e non della psiche" (D. Bohnoeffer), che rende capaci di portare i pesi gli uni degli altri (Gal 6,2).

 

e)      Il tempo del servizio

Nella comunità dei credenti la sottomissione reciproca nel timore del Signore è il collante, il fondamento del vivere insieme in comunione fraterna. Non è facile mantenere sempre uno spirito di armonia, di concordia, di pace e soprattutto di sottomissione, perché spesso la parola "io" (egocentrismo, orgoglio, presunzione, volontà di primeggiare e dominare) continua a prevalere nella relazione/comunicazione con l'altro/a e crea ostacoli, barriere, pregiudizi. Ma se abbiamo sperimentato nella nostra vita la misericordia di Dio, non possiamo fare altro che servire il Signore e il prossimo con spirito di umiltà, avendo di sé "un concetto sobrio secondo la misura di fede che Dio ha assegnata a ciascuno" (Rom. 12,3).

È vero che a tutti è dato di realizzarsi, ma non a vantaggio di se stessi, bensì in vista dell'opera che siamo tutti insieme chiamati a compiere nella chiesa e nel mondo: l'avanzamento del regno di Dio.
Aldo Palladino
Bibliografia
Alberto Taccia, Nuovo Testamento Annotato, Vol. III, Claudiana
Bruno Corsani, Introduzione al Nuovo Testamento, Claudiana
Heinrich Schlier, La lettera agli Efesini, Paideia
Francis Foulkes, L'epistola di Paolo agli Efesini, Edizioni GBU
Martin Buber, Il cammino dell'uomo, Ed. Qiqaion
Dietrich Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana